La Puglia verso le Regionali ma la sfida è ritrovare un senso a questa politica

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LECCE – Sarà un anno importante, il 2025, per la politica pugliese con l’orizzonte delle elezioni regionali dei prossimi mesi. Si scaldano i motori per quella che si preannuncia una competizione particolarmente accesa per gli equilibri delicati delle coalizioni in campo e per i rapporti tra i territori e il governo centrale.

Una prima certezza è che si chiuderà definitivamente l’esperienza di Michele Emiliano da governatore: non mancheranno riflessioni e valutazioni sull’operato di uno dei protagonisti della stagione della “Primavera pugliese” (iniziata anche con la sua elezione a sindaco di Bari), e, allo stesso tempo, tra gli artefici che hanno decretato nei fatti la fine e l’affossamento dello spirito di quella stagione, attraverso scelte strategiche e di metodo che hanno ridato centralità a “trasformismi” e opportunismi politici. Col risultato di vedere spesso l’azione di governo “condizionata” più da alleanze numeriche che da convinzioni comuni. La “forza” di questo “modello” è stata l’aver trovato, dall’altra parte, un campo “svuotato” da due decenni di lotte interne e veti incrociati.

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Gli scenari

Ad oggi, il quadro da cui ripartire sembra abbastanza simile a quello di cinque anni fa: nonostante i malumori intorno all’esperienza del centrosinistra (ultimo solo in ordine di tempo la modifica alla legge elettorale che obbliga i sindaci che vogliono candidarsi alla Regione a dimettersi sei mesi prima del voto e che ha mandato su tutte le furie anche l’Anci Puglia), è forte l’idea che la figura di Antonio Decaro, ex sindaco di Bari e oggi parlamentare europeo, proprio in virtù delle 500mila preferenze ottenute pochi mesi fa, possa essere il collante giusto per rilanciare l’azione della coalizione del centrosinistra su nuove basi, anche superando le contraddizioni della recente gestione. 

Dall’altra parte, come cinque anni fa, si naviga a vista, senza un profilo chiaro che possa interpretare le istanze del centrodestra: uno dei nomi ipotizzati era quello di Marcello Gemmato, sottosegretario alla Salute in carica (nome che non sembra scaldare), prima che venisse avanzata l’idea Nicola Porro. Dagli studi di Rete 4 alla politica, con trascorsi da portavoce dell’ex ministro berlusconiano Antonio Martino, il popolare giornalista e conduttore televisivo ha incassato l’endorsment della sindaca di Lecce, Adriana Poli Bortone. Ma anche il suo nome non è “nuovo”, visto che già nel 2019 era stato chiamato in causa come possibile outsider della destra: allora come oggi, il diretto interessato, però, sembra non farsi troppo prendere da quest’idea.

Cinque anni fa, alla fine, il centrodestra, nel più classico devozionismo da amor fati e circolarità della storia, riproponeva Raffaele Fitto, l’uomo di ogni stagione (da almeno trent’anni) e sul cui nome si era infranta già nel 2005 l’esperienza di governo in Puglia: com’è andata a finire si sa, è storia. Oggi, il punto è che il centrodestra continui a faticare nella ricerca di candidati spendibili e riconoscibili e confidi molto nel cosiddetto “effetto Meloni” anche su scala regionale.

La vera sfida è favorire la partecipazione

Vedremo cosa accadrà e cosa attendersi. Ricordando, però, che i retroscena che si muovono dentro i palazzi e nelle sezioni di partiti sempre più fatiscenti sembrano ormai interessare poco ai cittadini, dove la più amara tra tutte le consapevolezze è quella che un elettore su due, da tempo, abbia scelto di restare a casa, di non votare, di non esprimersi non sentendosi più rappresentato dal sistema.

Le forze politiche hanno deciso per ora di traccheggiare sul tema, di non affrontare di petto la questione, eludendola e fingendo di non “vederla”, cullandosi sui risultati quando questi si mostrano a proprio favore.

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L’assenza di partecipazione è però il vero tasto dolente, il nodo centrale di una politica che abbia voglia davvero di tornare ad occuparsi dei problemi dei cittadini e di risolverli: perché racconta di una sfiducia logorante, di una speranza perduta nel futuro e nei processi collettivi a partire da quel piccolo motore che un tempo era lo spirito di comunità.

La situazione anche nei piccoli comuni

I territori sono stati per anni l’ultimo baluardo di espressione di una speranza esercitata attraverso la partecipazione democratica, ma oggi sono la rappresentazione plastica della crisi di riferimento. Basti pensare a ciò che sta accadendo già a partire dai piccoli centri, dove si fatica a formare le liste per le amministrative (non solo per lo spopolamento dei paesi che pure ha il suo peso) per via di meccanismi di selezione, sbilanciati più sulla capacità di “portare voti” che di portare idee. Con l’effetto di moncare attivismi, meritocrazia e alternanza (non solo quella tra forze di governo ma proprio tra persone).

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Per leggere questo “immobilismo”, si potrebbe analizzare la composizione di molti consigli comunali per accorgersi di una reiterazione di nomi e famiglie nella storia politica cittadina; per non parlare di amministrazioni alla guida di singole municipalità da decenni con tutte le contraddizioni di un potere nelle mani di pochi e i rischi di logiche clientelari; e ancora guardare a piccole realtà che, in questa difficoltà “strutturale”, trovano una singola lista a svolgere ruolo di “governo” e “opposizione”, alterando le dinamiche basilari della vita democratica.

Certo, non è tutto negativo per principio e non va condannata la “passione” per la politica che molti rappresentanti sul territorio mettono nel proprio impegno diretto; ma non si può pensare di prestare un “servizio” alla comunità trasformandolo in “mestiere”. E da questo punto di vista la risposta del governo è una non risposta: la “carenza” partecipativa viene risolta aumentando i mandati dei sindaci dei comuni più grandi e non ponendo limiti a quelli dei più piccoli, aprendo le porte al rischio di una gestione quasi “feudale” dei territori, invece, di aprire a meccanismi nuovi di partecipazione.

Ridare slancio e senso alla politica

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Ecco, forse la sfida di chi oggi, a tutti i livelli, sceglie la politica, dovrebbe essere ridare senso alla partecipazione. Perché meno persone partecipano alla vita politica sono meno idee in circolazione e meno visone di un futuro per tutti. Meno idee in circolazione sono ricorso a “ricette” (e a figure) già note e che hanno perpetrato un sistema avvitato su ingranaggi inceppati.

Ridare ali alla partecipazione significa recuperare spazio per la collettività e per la speranza in un mondo fiaccato dall’individualismo, dove politica sia farsi carico davvero dei problemi dei cittadini. Perché come scriveva don Milani: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

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