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Un anno vissuto intensamente, forse anche pericolosamente, di sicuro brillante, e di luce propria. La cultura non serve a nascondere, come polvere sotto il tappeto, i problemi di Napoli e della Campania, che restano quelli di sempre, ma di sicuro è ottimo parametro di giudizio per verificare la creatività, la vivacità, la vitalità, di un territorio, di un popolo verrebbe da dire.

E, mai come in questo 2024, Napoli è sembrata tornare caput mundi, o quasi, dai non esageriamo. Non solo, e non tanto, per la carica dei turisti, quanto per la centralità riconquistata dalla sua lingua. Con buona pace dei puristi, Geolier (l’artista più ascoltato dell’anno in Italia su Spotify, spodestando, dopo tre anni, Sfera Ebbasta, che si deve accontentare del secondo posto) ha capeggiato la riscossa del dialetto, tornato lingua nazionale.

Una moda? Certo, ma lo era anche al tempo del sommo Salvatore Di Giacomo, non lo era, invece, ai bei tempi di Pino Daniele, ma anche degli Almamegretta tanto per intenderci, i cui brani erano osteggiati, se non boicottati, da radio e tv: «Cantate in italiano», suggerivano discografici, dirigenti tv e dj di turno. In quest’anno che ci lasciamo alle spalle hanno cantato in napoletano, tra gli altri: Madame, Elodie, Annalisa, Marco Mengoni, Elisa… per dirne solo qualcuno. Non sembri particolare da poco: una lingua, corrosa e corriva come quella dei rapper e dei postmelodici, certo, ma una lingua è viva quando esce dai suoi confini, quando è condivisa.

E non sembri particolare da poco che il film più discusso sui social- insieme ombelico del mondo e pianeta onanista per eccellenza – sia stato «Parthenope» di Paolo Sorrentino: così identitario sin dal titolo, dalla storia, dalle allusioni e dai rimandi a personaggi reali accessibili a pochi, eppure stravisto nelle sale e stra-stracommentato, elogiato, stroncato, vituperato su qualsiasi piattaforma esistente.

Napoli nel titolo anche per l’altro premio Oscar verace, Salvatores, con «Napoli-New York»: tutt’altro stile, tutt’altro racconto, ma egualmente ben raccolto in sala ed egualmente capace di dire che le ali hanno bisogno delle radici, che le radici non servono senza ali e disponibilità ad aprirle, ad aprirsi.

Ma allargando lo sguardo all’intero comparto, ed attendendo i nuovi direttori dei musei (al Mann manca il successore di Giulierini da ormai troppo tempo), tutto dice di un’annata eccellente, che come il miglior vino, ci capiterà di riassaporare. Le polemiche – per il pesce di Pesce in piazza del Plebiscito, per l’Eduardo rivisto e corretto da Salemme (e stasera tocca a quello di Gassmann, Gallo e Foglietta: siamo pronti a nuove querelle da parte dei vedovi di De Filippo che non frequentano i teatri), per «I’ p’me tu p’te» – sono uno degli indici di quella vitalità sopra accennata: si discute sulle cose che dividono, certo, ma anche sulle cose che interessano, che colpiscono in qualche modo, non per quelle che passano inosservate, che non servono a nulla.

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E non possono passare inosservate tendenze ormai consolidate. Una rondine non fa primavera, ma stormi di rondini sì. E stormi di rondini sono le decine e decine di film, serie, documentari, speciali televisivi che hanno trasformato la città, ma anche la regione tutta con particolare risveglio negli ultimi tempi per la costiera amalfitana e sorrentina, in un set a cielo aperto. Sergio Bruni, a voce e Napule, con oelografica grammatura cantava la città palcoscenico, che, negli ultimi anni, aveva perso anche questo primato. Riconquistato anche con il rischio di correnti neo-oleografiche, neo-kitsch, neo-conservatrici, oltre che con la pizzificazione e la spritzificazione dell’intero, glorioso e un tempo deserto, centro storico.

Sono stormi di rondini che possono annunciare una primavera ormai imminente anche i concerti che hanno riempito lo stadio Maradona e piazza del Plebiscito e lo spazio davanti alla reggia di Caserta e l’anfiteatro degli scavi di Pompei. Perchè il risultato della stagione archiviata sta nei sold out già annunciati al Maradona (Vasco & Co), nel cartellone in costruzione nel salotto buono partenopeo e davanti al palazzo vanvitelliano (Ligabue è pronto con il suo Campovolo bis) e nella città seppellita dal Vesuvio (dove si inizia a vedere il ritorno dei grandi artisti stranieri, rompendo una sorta di dittatura autarchica nazionalpop).

Sono stormi di rondini la capacità di resistere ad un’annata economicamente difficile di manifestazioni consolidate come il «Giffoni film festival», il «Campania teatro festival», il «Ravello festival», che ci si augura di rivedere al centro della programmazione nel 2025.

E rondini sono gli artisti napoletani in testa alle classifiche, di qualità e di quantità, su (quasi) ogni fronte possibile, dal teatro alla musica classica (dobbiamo ricordare il recentissimo Muti al Senato, anche lui orgoglioso del suo dialetto?), dall’arte contemporanea a quella drammaturgica.

Convitato di pietra, grande assenza e qui l’assenza è un assedio ma anche un fertilizzante preziosissimo se usata al meglio, è Pino Daniele: l’anno che sta arrivando sarà nel suo segno. Al ricordo dei dieci anni dalla sua morte dei settanta dalla sua nascita si aggiungeranno le riletture di giovani che cercano una nuova partenza anche usando il suo insegnamento.

PS. Qualcuno, malauguramente, disse tempo fa che con la cultura non si mangia. Napoli dimostra una volta di più quanto sbagliasse. Caravaggio e i murales di Jorit e del D10s, le chiese del centro storico ravvivate dall’arte contemporanea, i record di presenze e le nuove scoperte di Pompei, l’indotto milionario dietro i grandi concerti, «X Factor» che illumina piazza del Plebiscito riconoscendone il prima televisivo… beh valgono non solo la gioia di chi ne ha fruito, ma anche un bel po’ di… euri. Sarà bene ricordarselo ogni volta che si parla di lavoro che non c’è: questo è un comparto in cui c’è, ce ne sarà probabilmente sempre di più e stanno nascendo importanti filiere produttive. Che non hanno, certo, il cuore e il portafoglio a Napoli, ma almeno la testa, le gambe, le braccia, gli attributi sessuali. E a Napoli, in Campania, stanno iniziando a spendere una bella fetta delle banconote di quei portafogli.

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