C’erano una volta le residenze di edilizia pubblica, quelle che in Italia si chiamavano case popolari. Alloggi di proprietà pubblica, nati da una duplice convinzione: una di carattere universalistico (un tetto sulla testa come diritto inalienabile di ogni cittadino) e l’altra di carattere utilitaristico (la loro costruzione è stato un poderoso investimento in edilizia, che ha alimentato l’occupazione e la disponibilità economica dei beneficiari, alimentando quindi i consumi). In Italia, solo tra il 1949 e il 1963 si costruirono 355 mila alloggi popolari, attraverso oltre 20.000 cantieri che arrivarono a dare lavoro al 10% degli operai edili dell’epoca. Fino agli anni ’80 del secolo scorso in media si costruirono oltre 300.000 alloggi di edilizia pubblica al decennio. Dall’inizio degli anni ’90, invece, gli investimenti si sono fermati, parallelamente al progressivo smantellamento dello Stato sociale e al ritiro dello Stato dalla pianificazione economica – che ha segnato il passaggio dall’economia di tipo keynesiano, che dominava l’Europa fino alla fine della guerra fredda, al neoliberismo che prese le redini in seguito. Dal 2000 a oggi, il numero delle case pubbliche costruite in Italia si è praticamente azzerato: gli unici investimenti riguardano i lavori di ristrutturazione per tenere in vita almeno parte del patrimonio costruito nei decenni precedenti. Nel 2023, il patrimonio di case popolari in Italia conta circa 805.000 unità. Ma circa il 10% di queste è sfitto e di quelle rimanenti la gran parte ospita famiglie (o più spesso solo eredi dei nuclei storici) che non avrebbero più il diritto di abitarle perché non a basso reddito, ma a cui nessuno chiede di fare spazio a chi ne avrebbe bisogno.
Non è tutto. Nel 1992 è stato abolita la legge sull’equo canone, che calmierava il prezzo degli affitti in base ad alcuni parametri come il valore dell’immobile e il suo stato di conservazione, lasciando l’intero settore immobiliare in mano al libero mercato. Nel mentre, parallelamente ai tagli agli enti locali, in tutte le Regioni sono stati ridotti al lumicino i contributi per l’affitto destinati ai nuclei a basso reddito. Il risultato prevedibile dell’accoppiata tra soppressione dell’edilizia pubblica e deregolamentazione del mercato è stato l’esplosione dell’emergenza abitativa. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, dal 2002 al 2021 in Italia sono stati eseguiti 519.243 sfratti, l’83% per morosità, ovvero perché gli inquilini non erano in grado di pagare il canone d’affitto. E i numeri continuano a peggiorare: nel 2022 è stato raggiunto il record di quasi 42 mila sfratti.
Nel frattempo, in nome del libero mercato, le nostre città piene di gente senza casa si sono riempite anche di case senza gente. L’ultimo censimento ISTAT sulle abitazioni certifica che in Italia ci sono oltre 9,5 milioni di abitazioni sfitte: il 27% delle 35 milioni presenti nel Paese. Solo a Milano gli appartamenti disabitati sono 109.000, a Roma 162.00, e molti di questi appartengono a fondi immobiliari che le tengono volutamente vuote per non alterare al ribasso i prezzi di mercato. Ma, mentre diversi Paesi europei intraprendono misure per limitare il fenomeno degli affitti turistici e scoraggiare il fenomeno delle abitazioni mantenute sfitte attraverso l’innalzamento della loro tassazione, in Italia questo argomento è ancora un tabù.
Si tratta di una dinamica spietata, che colpisce le famiglie in quello che è un diritto primario per poter vivere una vita degna. Per questo non dovrebbe stupire che in tutte le città italiane, a cominciare da quelle più grandi dove è maggiormente impattante l’emergenza abitativa, sono attivi movimenti per il diritto alla casa. Questi, oltre a manifestare, non disdegnano di attuare pratiche formalmente illegali come l’occupazione degli alloggi pubblici sfitti. Si tratta di un fenomeno in continua espansione: si stima che il 4% degli alloggi popolari sfitti sia attualmente occupato, spesso da parte di alcune di quelle 605 mila famiglie che avrebbero i requisiti per richiederli ma sono da anni in graduatoria senza che gli vengano assegnati. Tra di loro, come è purtroppo naturale che sia, si annidano anche storie di alcuni che occupano per semplice tornaconto o, peggio, per attuare una sorta di racket degli affitti illegale. Storie numericamente marginali, ma su cui i media puntano quotidianamente il faro, fomentando nell’opinione pubblica l’idea distorta che il problema della carenza di alloggi sia da imputare a chi occupa piuttosto che allo Stato, che non costruisce alloggi popolari e non assegna quelli esistenti, e ai grandi fondi immobiliari che mantengono sfitte migliaia di abitazioni per fini speculativi.
Gli interessi mediatici nel distorcere la questione
La criminalizzazione dei movimenti per il diritto alla casa si muove a ondate, seguendo picchi mediatici che quasi mai arrivano per sbaglio. Negli ultimi mesi, dopo le indagini dell’ente ALER a Milano sull’europarlamentare Ilaria Salis e l’attenzione mediatica sulle proteste contro la turistificazione, l’occupazione abusiva sembra essere nuovamente una tra le principali preoccupazioni degli editori. Che la stampa generalista sia solita fiondarsi su argomenti che possano attirare l’attenzione, per affrontarli con superficialità, non è purtroppo una novità. Tuttavia, sarebbe bene notare che, in molti casi, a soffiare su un fuoco inesistente sono gli stessi giornali, con il fine di creare inutile allarmismo e, magari, veicolare altri messaggi.
Dietro al racconto sul rischio, statisticamente insignificante, di vedere la propria casa occupata «mentre si esce per fare la spesa», non c’è semplicemente il bisogno di fare clickbait, ma una vera e propria propaganda fatta per distogliere l’attenzione dai reali problemi e dai reali responsabili della situazione. Analizzando, senza grande difficoltà, le proprietà dietro ai gruppi editoriali che gestiscono la quasi totalità dei media nostrani, si scopre che queste posseggono contemporaneamente enti turistici, imprese di costruzione e, soprattutto, holding di investimento immobiliare. Il conflitto d’interessi che si staglia sulle prime pagine dei giornali, rende impossibile la denuncia delle reali cause dietro all’inaccessibilità, sempre maggiore, di un’abitazione degna. Il dito puntato dalla stampa contro l’occupazione cela coloro che trasformano le città e simultaneamente finanziano il racconto della propria impunità.
Prendiamo il caso di Roma. Da anni ormai il quotidiano Il Messaggero porta avanti una campagna ossessiva contro le occupazioni. Nella sua narrazione i movimenti diventano racket mafiosi e la Capitale appare una terra di nessuno, dove la proprietà della casa è minacciata non dai prezzi fuori controllo che impediscono di acquistarla, ma da chi si organizza per rivendicare il diritto ad avere un tetto sulla testa. Le case della malavita, Case occupate: il listino prezzi del racket, Roma: il racket delle case occupate: ecco alcuni dei titoli che quotidianamente affollano le pagine del principale quotidiano romano. A leggerlo, pare che Roma sia una sorta di Gotham City governata dagli occupanti. Mai una parola, invece, sulla vergogna di oltre centomila appartamenti sfitti o sulle case popolari non assegnate. Non a caso, Il Messaggero è di proprietà della Caltagirone Editore Spa, a sua volta controllata da Francesco Gaetano Caltagirone, storico palazzinaro della capitale con un patrimonio di 3,5 miliardi di euro, membro della Giunta di Confindustria e del Comitato di Presidenza della Federazione italiana editori giornali. Non è un caso isolato: noti sono, ad esempio, anche gli interessi immobiliari e legati al settore bancario di Fininvest (che controlla Mediaset) e Urbano Cairo (La7, Corriere della Sera e decine tra quotidiani locali e periodici).
Fare chiarezza è uno dei doveri del giornalismo e, in questo caso, sarebbe forse più corretto, da un lato, presentare dei dati reali e incontrovertibili e, dall’altro, ricordare che in Italia, secondo i dati, circa una casa su quattro non è abitata, ovvero 9,5 milioni su 35,3. Quando ascoltiamo notizie che ci parlano ossessivamente del “pericolo occupazione abusiva”, chiediamoci chi ce lo sta dicendo e chi sta finanziando questo tipo d’informazione.
[di Andrea Legni e Armando Negro]
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