La retorica bellicista che cancella la parola pace

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“La mente è un campo di battaglia” lo afferma il nuovo Capo di Stato maggiore italiano il generale Masiello intervistato da Fanpage. Lo dice parlando delle “nuove” forme di offesa praticate nei conflitti più recenti: non soltanto droni, intelligenza artificiale e cyber-attacchi, ma anche disinformazione scientemente brandita come una spada, per confondere il nemico, per fargli perdere il bandolo della realtà, per spaventarlo o fargli dubitare del senso di ciò che fa, fiaccandone l’ardimento e la disponibilità all’ubbidienza.

Che la “mente sia un campo di battaglia” è certo da sempre, la propaganda e le fake news non nascono con i social, temo piuttosto che oggi per le destre occidentali, spumeggianti di vittorie elettorali, coadiuvate da improbabili sinistri, le “menti” trasformate in campi di battaglia siano le nostre. Obiettivo: per cacciare definitivamente ogni residuo di quelle convinzioni che a carissimo prezzo si diffusero dopo la fine della Seconda guerra mondiale e che conobbero una straordinaria, quanto breve, primavera globale dopo la fine della Terza guerra mondiale, cioè dopo il 1989. Quelle convinzioni che ruotano attorno ad uno slogan tanto semplice quanto provocatorio: se vuoi la pace, prepara la pace. Perché la pace va intesa come tenace ed onesta ricerca di giustizia nelle relazioni interne ed internazionali. Una pace non ingenua, che non disconosce il valore della deterrenza ed anche della forza, ma che assegna a questi strumenti un ruolo residuale, da “estrema ratio”, sicuramente subordinato alla progressiva affermazione del diritto internazionale e di conseguenza a forme ordinate di composizione dei conflitti. Non è la presenza di un estintore che preserva il bosco dall’incendio, ma la cura costante che se ne fa e la prevenzione di condotte irresponsabili. Certo l’estintore è bene che ci sia ed è importante che ci sia chi lo sappia usare.La battaglia nelle menti dei cittadini è combattuta su tre fronti e ci porterà alla guerra, se non avremo la forza di arrestarla.
Il primo fronte è la bullizzazione sistematica di chi ancora prova a sostenere che il principale modo per difendere la pace sia quello di costruire la pace attraverso la cooperazione: in un altro intervento il Capo di Stato maggiore Masiello afferma “Tutti dobbiamo essere educati a questo concetto (l’Italia deve prepararsi alla guerra), io lo so che è più bello parlare di apericena, è più bello trascorrere le serate lungo il mare”, come se chi non attribuisse priorità alla sicurezza (militare) fosse un imbecille dedito ad alcol, patatine e tramonti mozzafiato. La presidente Meloni dal canto suo, in visita al contingente italiano di stanza in Lituania che dice “A quelli che si riempiono la bocca parlando di pace vorrei ricordare che…” Lasciando intendere che soltanto degli imbecilli possano aver dimenticato che “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”.
Il secondo fronte sul quale si combatte la battaglia nelle menti dei cittadini è l’insistenza con la quale si parla della necessità del riarmo, costi quello che costi: quando ho letto dell’accordo tra Italia, Regno Unito e Giappone per la costruzione del nuovo caccia militare da 100 miliardi non volevo credere ai miei occhi. Imboccata la strada delle armi come unico strumento di presidio per la sicurezza, attraverso il mito della deterrenza, non può esserci fine alla rincorsa ad avere una pallottola in più, un missile in più, un areo in più del nemico. E’ una gara senza fine che ingrassa soltanto i costruttori di armi.

Il terzo fronte è quello dello smantellamento sistematico del diritto internazionale e delle Istituzioni messe a suo presidio: le Nazioni Unite gettate nel discredito, i “caschi blu” buttati in qualche scantinato dopo i fallimenti tragici degli anni 90, la Corte Penale Internazionale trattata, soprattutto dopo le decisioni assunte contro i vertici governativi israeliani, come un centro sociale occupato. Lo stesso principio di legalità sempre più svilito come se lo Stato di diritto fosse una zavorra inadeguata ai tempi nostri.

La retorica bellicista è talmente pervasiva che diventa ogni giorno più difficile resisterle, condita come è dal vocabolario nazionalista che tutto infarcisce di amor di patria, di madre patria, di sacrificio, di onore, di fierezza e di bambini che possono andare al nido, scartare i regali, essere curati, perché c’è chi li protegge col fucile spianato. Dovremo resistere eroicamente per salvaguardare nelle nostre menti tutto quell’altro modo per costruire “pace”, quello che avevano chiaro i confinati di Ventotene, che aveva chiaro il francese Schuman mentre scriveva al tedesco Adenauer, che ci fa pretendere giustizia per Giulio Regeni, per Mario Paciolla, per Andy Rocchelli, nonostante le circostanze nelle quali sono avvenuti questi omicidi indurrebbero a disperare. Che ci fa indignare per la probabile archiviazione dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio, senza che il governo italiano abbia nemmeno sentito la necessità di costituirsi parte civile.

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