La cosa più bella della polemica montata a seguito dell’annuncio della partecipazione di Tony Effe al concerto di capodanno di Roma e alla sua successiva esclusione è Paolo Mieli che, in collegamento con 24mattino, con la sua voce calda e pacata, recita alcuni versi del rapper romano – «Fumo crack alla busta / chiamo venti bastarde e poi ci faccio bunga bunga / brava con la bocca / voto 10 sei promossa / lei si chiama gioia beve poi ingoia» – prima di essere fermato da uno scandalizzato Simone Spetia. Rimarrà la mia suoneria per molto tempo.
Il rap non è un genere nuovo, lo testimoniano le cerimonie tenutesi negli Stati Uniti lo scorso anno per celebrare il 50esimo anniversario dalla nascita dell’Hip Hop (Hip: conoscenza, Hop : salto), movimento culturale nato a Brooklyn l’11 agosto 1973, di cui il rap è una delle discipline insieme al writing, beatboxing, break dance e DJing o MCing. Il movimento si fa strada nella periferia della Grande mela, nei quartieri connotati da delinquenza ed emarginazione sociale, divenendo presto una via di fuga dalle criticità di quei luoghi, oltre che un modo alternativo e meno violento per le gang rivali di sfidarsi. Comincia così ad essere percepito come strumento di condivisione e lotta, foriero di sentimenti di appartenenza e fratellanza.
In Italia il genere arriva più tardi. Noi dovremo aspettare fino agli anni ’80, quando Afrika Bambaataa, artista di spicco del rap anni ’70, fondatore della Zulu Nation e che nel 1988 collaborò con Enzo Avitabile per il singolo Street Happiness del cantante partenopeo, fece il suo primo tour mondiale in cui toccò anche l’Italia.
A seguito del tour tanti giovani rimasti affascinati dallo stile del rapper e dal nuovo genere cominciarono a creare le prime realtà in città come Roma, Milano, Bologna e Torino, in cui nacque l’Hip Hop italiano. Bisognerà però aspettare il 1990 per il primo disco rap italiano prodotto dal collettivo romano Onda Rossa Posse.
Il genere si è poi sviluppato nel corso degli anni ’90, vedendo la nascita di nuove formazioni e rapper solisti, come gli Articolo 31, Sangue Misto, Sottotono, Bassi Maestro, Colle der Fomento e Sacre Scuole. L’ultimo decennio del vecchio millennio è un periodo prolifico e di successo per il rap italiano che sempre più spesso viene passato in radio, raggiungendo così una fetta sempre maggiore di pubblico. Complici i successi come il singolo Quelli che benpensano di Frankie Hi-Energy contenuto nell’album Verba Manent, o dell’album Così com’è degli Articolo 31 che, con più di 600mila copie vendute, è considerato come elemento fondante del genere e uno dei più importanti dischi nella storia dell’Hip Hop italiano.
Durante i primi anni 2000 il genere va in crisi, nasce così una nuova scena che genererà artisti come Fabri Fibra, Club Dogo e Truceklan, che sapranno ridare slancio alla musica rap italiana dopo un periodo di stagnazione. L’odierno capro espiatorio, Tony Effe, fa parte di una delle ultime generazioni, nate sotto l’egida della trap, sottogenere del rap molto semplificato che, proprio per questa sua semplicità, ha fatto breccia nel mercato musicale divenendone elemento totalizzante. Al punto che secondo Steven Basalari, proprietario della discoteca Number One, ha portato ad una saturazione dell’offerta delle discoteche e, insieme ad altri fattori, ne sta contribuendo al declino.
Le liriche di Tony Effe non si discostano dall’immaginario comune del rap. Questo è composto da sfide, insulti, insinuazioni sull’avversario che mirano a minarne la forza della risposta. Il rap è nato e si è sviluppato nelle battle: scambi dialettici in rima in cui si mette alla prova la propria bravura contrapponendosi ad un avversario, con l’obiettivo di surclassarlo di rime. In un conteso simile, sobborghi di una metropoli in cui due giovani si sfidano a suon di rime, non dovrebbe sorprendere che qualcuna di queste sia più estrema o meno politicamente corretta delle altre. Bisogna però spiegare a chi è cresciuto con i Pink Floyd e Battisti che il rap non è solo turpiloquio e insulti.
Ce lo ricorda Marracash con il suo ultimo album, uscito il 13 dicembre scorso, È finita la pace, ultimo capitolo della trilogia iniziata nel 2019 con Persona (titolo e copertina sono un omaggio al film di Ingmar Bergman del 1966) e proseguita con Noi, Loro, gli Altri del 2021 che è valso al rapper di Barona l’assegnazione della Targa Tenco.
Nelle tredici tracce che compongono il disco Fabio Rizzo, in arte Marracash, si conferma un abile speleologo delle crepe della società moderna, nelle quali scende per conoscere cose che per ora non “disturbano” la nostra pace, rovesciando, nella traccia d’apertura Power Slap, il monito Pasoliniano “Siamo tutti in pericolo” in “Siamo noi il pericolo mettendoci di fronte allo specchio”. La copertina è eloquente: una bolla pronta ad esplodere. Ci costringe ad aprire gli occhi su una realtà in cui ci troviamo a vivere “separati”, chiusi nelle nostre bolle digitali, che ci rendono meno empatici e più feroci.
«Servi di dio, servi del cash, servi dei server / umano, umano troppo lo scriveva Nietzsche». Marracash sfida apertamente il politicamente corretto in Troi*, chiedendosi se esiste un termine che, al maschile, possa dare lo stesso senso dell’insulto generalmente riferito ad una donna che non si incasella nei dettami della società. Dipinge scene di solitudine hopperiana in Soli. Guarda con occhi disillusi e tristi il mondo in Gli sbandati hanno perso. Racconta il nuovo proletariato in Factotum. Insomma, ci mostra un quadro poco edificante ma lo fa senza indorare la pillola o romanzandone gli elementi. È diretto, crudo e sincero. «Fuck Elon Musk ho venduto la Tesla».
Il rapper di Barona però non è partito così, nel suo palmarès ci sono numerose canzoni di successo, che per termini usati possono essere accomunate con quelle di Tony Effe. Il fatto, come si è detto, è che il rap è un genere che viene dai bassifondi, da mondi in cui bisogna sopravvive e in cui molto spesso non c’è pietà, intesa come pietas cristiana, sentimento paternalistico usato da chi lo esercita per porsi su un piedistallo dal quale guardare in giù per dispensare patenti di moralità in favore del buon senso. E come disse Pasolini nella sua ultima intervista, il buon senso non ha mai fermato la situazione.
«In un vecchio tabaren io godevo senza fren / quando verso la mattina arrivò (taran taran tan) la cocaina», cantava Gianna nel 1965: ricordiamocene quando monterà la prossima polemica sulle canzoni che istigherebbero i giovani a condotte devianti.
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