Ismea ha presentato il rapporto annuale sull’andamento dell’agroalimentare italiano nel 2023 che presenta luci e ombre: cresce il suo fatturato ed il livello dell’export, ma se nel suo complesso il tasso di autoapprovvigionamento è quasi del 100%, vi sono delle filiere che, pur esportando molto prodotto finito e trasformato, sono costrette ad importare molta materia prima.
L’export nel 2023 è arrivato a 64 miliardi che dovrebbero arrivare a quota 70 quest’anno. Mentre gli investimenti in agricoltura hanno toccato quota 12 miliardi di euro.
Molto interessante l’analisi sulla distribuzione del valore nella catena della produzione agro-alimentare.
Per quanto riguarda le filiere e la redditività dei singoli anelli emerge come per 100 euro spesi dal consumatore per prodotti agricoli freschi contro i l’utile che rimane agli agricoltori è di soli 7 euro contro i 19 del commercio e trasporto; sempre per 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti alimentari trasformati l’utile degli agricoltori è solo di 1,5 euro mentre sono 2,2 quelli che rimangono all’industria alimentare di trasformazione. La maggior parte dell’utile risulta appannaggio della distribuzione e dei servizi connessi. Nella sua relazione l’Ismea definisce questi come «squilibri strutturali nella distribuzione del valore lungo la filiera agroalimentare».
Nel complesso l’industria alimentare ha chiuso il 2023 con un valore aggiunto in aumento del 16% a prezzi correnti e del 2,7% in volume. L’alluvione in Emilia-Romagna, Toscana e Marche, le gelate tardive della scorsa primavera e le ondate di calore al Sud sono però costate un miliardo di danni, a carico soprattutto di frutta, foraggi e cereali.
Analizzando l’import delle materie prime si scopre come per molte filiere il nostro paese stia assumendo sempre più i connotati di trasformatore. I primi dieci prodotti che abbiamo importato sono stati: caffè, olio extravergine di oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione di olio di soia. Il grado autosufficienza dell’Italia per questi prodotti varia dallo 0 % nel caso del caffè e dell’olio di Palma a oltre il 60 % nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi le importazioni negli ultimi vent’anni sono considerevolmente aumentate comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento al 46 % per il mais e al 32 % per la soia. Quanto ai paesi d’origine per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile, mentre nel caso del mais prevalgono gli arrivi dall’Ucraina un paese chiaramente a rischio elevato. Il tasso di approvvigionamento nazionale è basso anche per i frumenti, con l’industria pastaria che dipende per il 44 % dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quello dei prodotti da forno che per il 64 % del suo fabbisogno ricorre ai prodotti di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno.
Anche per la carne bovina il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023: 40%, con la Francia che concentra l’ottantacinque percento del valore dell’import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale da altri fattori come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza di blue tongue.
Infine, l’olio extravergine di oliva di cui l’Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore: le forniture provenienti dagli altri paesi del bacino del Mediterraneo, Spagna soprattutto, sfiorano il 50 % del nostro fabbisogno.
Ismea ritiene che questo deficit di materie prime nazionali di alcune delle principali filiere del nostro sistema agroalimentare ci rende più vulnerabili a fattori geopolitici, climatici e sanitari che influenzano le catene di fornitura specie dove il tasso di approvvigionamento è molto basso e la provenienza delle importazioni è fortemente concentrata o legata a paesi lontani ed esposti ad alcuni dei rischi sopra menzionati.
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