la pericolosa ipocrisia della Bce

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La BCE, quell’istituzione che dovrebbe vegliare sulla stabilità economica dell’Eurozona, si rivela sempre più simile a un perfetto esempio di politica d’austerità mascherata da buona gestione. Uno dei più recenti moniti della Banca centrale europea è un capolavoro di ipocrisia: non abbasseremo il costo del denaro se i Paesi membri concederanno aumenti salariali significativi. Tradotto, cari lavoratori europei, tenetevi l’inflazione e dimenticatevi di recuperare anche solo una briciola del potere d’acquisto perso negli ultimi anni.

Germania e Italia, la logica della Bce di fronte alla realtà

Prendiamo il caso della Germania, il motore economico d’Europa, oggi in stagnazione e in crisi. Le richieste dei sindacati tedeschi sono quanto di più ragionevole si possa immaginare: un aumento del 7% per far fronte all’inflazione e una riduzione dell’orario di lavoro. Ma ecco che arriva la BCE a puntare il dito, ricordando che qualsiasi concessione potrebbe destabilizzare i mercati. Intanto, giganti come Volkswagen e Ford annunciano tagli massicci ai posti di lavoro: chiusura di stabilimenti, delocalizzazioni e riduzione dei costi a spese dei lavoratori. L’Europa sociale diventa un lontano ricordo, schiacciata dal mantra della competitività.

E in Italia? La situazione è persino più drammatica. I salari medi sono tra i più bassi d’Europa, le aziende dell’indotto industriale pagano cifre irrisorie rispetto a Germania e Francia, e la politica del lavoro si piega alle logiche del massimo ribasso. La BCE non fa altro che alimentare questo circolo vizioso, dettando regole che penalizzano i lavoratori e favoriscono un sistema sempre più orientato a tutelare le grandi imprese e i capitali.

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La domanda, a questo punto, è chi abbia dato alla BCE il mandato di imporre scelte politiche che appartengono ai governi democraticamente eletti. La risposta è semplice: nessuno. La BCE si è trasformata nel guardiano supremo dell’austerità, imponendo un modello economico che mortifica la crescita e ignora le disuguaglianze sociali. Eppure, mentre le banche centrali di altri continenti trovano modi per sostenere l’economia reale, l’Europa sceglie di colpire sempre gli stessi: i lavoratori.

La lezione di Luciano Gallino sul lavoro

Siamo davvero pronti a continuare su questa strada? O è il momento di mettere in discussione un sistema che privilegia pochi a scapito di molti? Forse è tempo di chiedere ai nostri politici – quelli che ancora ricordano il significato della parola democrazia – di alzare la voce contro un’istituzione che sembra aver dimenticato il suo ruolo originario.

Proviamo adesso a domandarci che cosa avrebbe detto Luciano Gallino se fosse ancora vivo.Secondo Luciano Gallino, la deriva che oggi vediamo incarnata nelle politiche della BCE non è altro che l’applicazione di un modello neoliberista che ha ridotto la politica economica a una gestione tecnocratica, completamente avulsa dai bisogni delle persone. Gallino lo aveva previsto con una lucidità spietata: la finanziarizzazione dell’economia non è un incidente di percorso, ma una strategia deliberata per spostare la ricchezza dal lavoro al capitale. La BCE, con la sua ossessione per la stabilità dei prezzi e il controllo dell’inflazione, ha dimenticato che il suo mandato implicito dovrebbe includere il benessere dei cittadini, non solo quello dei mercati finanziari.

La questione dei salari, denunciava Gallino, è il punto nevralgico di questa dinamica. Tagliare il costo del lavoro, comprimere le retribuzioni e spingere verso la precarizzazione non sono semplicemente effetti collaterali della globalizzazione, ma politiche deliberate che servono a rafforzare il potere del capitale. Quando la BCE avverte che un aumento salariale potrebbe destabilizzare l’economia, non sta proteggendo i cittadini, ma un sistema che considera il lavoro un semplice costo da abbattere, dimenticando che il lavoro è anche il motore della domanda interna, della crescita e della coesione sociale.

Gallino avrebbe poi sottolineato come il caso tedesco sia emblematico. La Germania, per anni considerata il modello economico europeo, mostra oggi le crepe profonde di un sistema basato sul contenimento salariale e sulla compressione del costo del lavoro. La crisi di colossi come Volkswagen non è solo il frutto di un mercato competitivo, ma la conseguenza di un sistema che ha tagliato investimenti strutturali e spostato risorse sul piano finanziario. Eppure, nonostante questa crisi sistemica, la BCE insiste nel suo ricatto: nessun calo del costo del denaro se i salari saliranno.

Gallino avrebbe denunciato con forza anche il caso italiano, dove la politica economica sembra incapace di rispondere ai diktat europei. Invece di riformare il sistema produttivo per renderlo più equo e sostenibile, si continua a competere al ribasso, accettando salari da fame e precarietà come prezzo inevitabile per restare sul mercato globale. Ma, come Gallino ci ha insegnato, la competizione basata sul dumping salariale è una strada senza uscita. Quando il lavoro perde valore, non è solo il lavoratore a soffrire: si indeboliscono le basi stesse della democrazia, perché una società diseguale è una società instabile.

Infine, Gallino avrebbe evidenziato come questa narrazione della BCE – che dipinge gli aumenti salariali come un rischio per l’economia – sia una costruzione ideologica. La vera minaccia non viene dai salari, ma dall’assenza di investimenti pubblici e privati che possano creare occupazione stabile e sostenibile. Eppure, invece di affrontare queste sfide strutturali, si preferisce scaricare il peso della crisi sui lavoratori, perpetuando un sistema che sacrifica l’equità sociale sull’altare della stabilità finanziaria.

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Seguendo il pensiero di Gallino, l’unica via d’uscita è un ripensamento radicale delle politiche economiche europee, che metta al centro il lavoro e la dignità delle persone, piuttosto che il profitto e le esigenze di un’élite finanziaria sempre più distante dai bisogni reali della società. Ma per farlo, avremmo bisogno di una classe politica disposta a sfidare i dogmi neoliberisti e a riprendersi il controllo delle politiche economiche, sottraendole alla tecnocrazia di Bruxelles e Francoforte.

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