«Natale, il discepolo contempla la gloria del Verbo incarnato» – Chiesa di Milano

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«L’annuncio di questa notte ci chiama a ricevere la grazia del Natale: il Verbo fatto carne è la luce che apre gli occhi, è la voce che invita all’amicizia, è la bellezza che apre l’animo allo stupore». Nella notte di Natale, in Duomo, come accade in ogni parte del mondo, si celebra la nascita del Salvatore, di quel bambino, povero e indifeso destinato, tuttavia, a cambiare la storia dell’umanità. E, così, le parole che l’Arcivescovo pronuncia tra le navate della Cattedrale gremite di fedeli – tanti gli stranieri – nella Messa dal lui presieduta, concelebrata dai Canonici del Capitolo metropolitano e dal Moderator Curiae, suonano come un richiamo a vedere la «luce vera, quella che illumina ogni uomo», come suggeriscono la Kalenda natalizia, proclamata in latino, il brano evangelico del Prologo del Vangelo di Giovanni e i canti eseguiti dalla Cappella musicale del Duomo e arricchiti dalle sonorità di un ensemble di 13 ottoni.  

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Dopo la Veglia di preghiera, celebrata sempre in Cattedrale in forma di Mattutino – in cui viene letta la pagina peculiare del Rito ambrosiano tratta dall’Esposizione del Vangelo secondo Luca di Sant’Ambrogio -, la Messa solenne si apre con la processione di ingresso e con monsignor Delpini che reca tra le mani velate la semplice statua lignea di Gesù Bambino, poi deposta nella culla ai piedi dell’altare maggiore. Simbolo di ogni immagine del Signore che nasce per tutti e sempre, tra le luminarie opulente delle città dell’occidente, tra le vie «su cui si affacciano infinite vetrine», per usare un’espressione di monsignor Depini, e le macerie delle città bombardate, su cui si sofferma il nostro sguardo spesso troppo superficiale.

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Lo sguardo avido e superficiale

Quello, richiamato nell’omelia, che «non va da nessuna parte, che vuole fotografare tutto, ma non abita»; lo sguardo «curioso che si posa frettoloso persino nelle chiese e nelle devozioni: non prega mai, custodendo la memoria di tante visite come una collezione di fotografie per esibire il suo girovagare».

Lo sguardo «avido che insegue gli oggetti, i ruoli e le persone che vuole possedere, comperare, di cui vuole godere; quello di chi presume di essere padrone di ciò che possiede, diventando, in verità, schiavo della sua avidità irragionevole e pericolosa per gli altri e anche per lui».

E, poi, «lo sguardo sospettoso, spaventato che si guarda intorno e dappertutto vede nemici e pericoli, minacce e insidie, per cui si chiude in casa, cercando come sicurezza la solitudine».

Insomma, un guardare che nulla a che fare con chi è testimone dello sguardo che contempla la gloria dell’Unigenito, come dimostrano «coloro che hanno preteso di trovare Dio esplorando i cieli, che accumulano esperienze per giungere alla conclusione che non si capisce niente, che non c’è nessun senso. “Io sono agnostico” sembra la professione di fede oggi più aggiornata e seria in quelli che cercano una qualche traccia di Dio inseguendo le loro ambizioni».

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I fedeli in Cattedrale (Agenzia Fotogramma)

Lo sguardo della contemplazione

Al contrario, «solo per chi vive il Natale è possibile lo sguardo che contempla», prosegue monsignor Delpini, quello «che rimane incantato, alimenta lo stupore, si sente trafiggere da una commozione; che convince alla sequela, che trasfigura, rendendo il discepolo conforme al Figlio: è la grazia che apre gli occhi ai ciechi. Il contemplare di cui parla il discepolo amato non è frutto di una capacità che alcuni hanno e altri non hanno, è piuttosto una luce che rende luce, una mano amica che prende per mano, un amore che rende capace di amare». Perciò si diventa pellegrini di speranza, «secondo l’immagine proposta da papa Francesco per il Giubileo 2025, che questa sera il Papa stesso ha inaugurato aprendo la porta santa in San Pietro». Da qui anche un breve, ma incisivo auspicio dell’Arcivescovo su come vivere il Giubileo, «non da visitatori distratti, non da avidi conquistatori, ma come pellegrini non spaventati e rinunciatari».

L’Arcivescovo saluta i fedeli al termine della celebrazione (Agenzia Fotogramma)

E, alla fine della celebrazione, ancora un augurio di buon Natale, «che non è come augurare buone vacanze, ma significa augurare di contemplare la gloria del Figlio unigenito e di trovare in lui la rivelazione di Dio, la direzione da seguire, la vita da condividere. Che questi siano giorni di gioia, di pace e che, insieme, possiamo essere pellegrini di speranza, credendo alla promessa che ci fa il Signore».     

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