Vi racconto la lunga storia del protezionismo americano. Scrive Polillo

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Il protezionismo americano e il deficit delle partite correnti degli Stati Uniti sono dovuti alla perdita di competitività e all’indebitamento estero. Gli Stati Uniti beneficiano del dollaro come valuta di riserva, permettendo loro politiche monetarie flessibili. Nel tempo, i principali partner commerciali sono cambiati, con la Cina che ha sostituito il Giappone. L’analisi di Gianfranco Polillo

19/01/2025

Quanto sono giustificate le lamentele americane nei confronti degli altri Paesi, fino al punto da minacciare la ritorsione dell’arma dei dazi? Per rispondere al quesito, è necessario ricordare almeno due cose. Nella storia economica degli Stati Uniti, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti dura da tempo immemorabile. Già durante gli anni Settanta le polemiche degli uomini della Fed contro la Bundesbank tedesca erano state roventi. Oltre Atlantico si rimproverava alle autorità di Bon (la riunificazione del Paese era di là da venire) di opporsi a una rivalutazione del marco, sebbene le partite correnti della loro bilancia dei pagamenti fossero costantemente in un forte attivo. Fu tutto inutile, i tedeschi erano disposti a tutto, ma non a sacrificare il cuore del loro mercantilismo.

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Da allora la situazione non è poi così mutata. Sulla scena internazionale sono comparsi nuovi protagonisti – la Cina, ma non solo – che hanno fatto solo peggiorare il quadro. A partire dal 1982, secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è stato in continua crescita. In un primo momento (dal 1982 al 1991) vi era stato un recupero, dopo il punto di minima del 1987 (-3.3% del prodotto interno lordo). Ma subito dopo era stato un continuo precipitare. Nel 2006 il deficit aveva addirittura raggiunto il 5,9% del prodotto interno lordo. E da allora il sospirato pareggio era divenuto solo una chimera. Tra i migliori risultati, infatti, quello del 2017 quanto il deficit si era ristretto all’1,9% del prodotto interno lordo. Per poi ritornare al 3,3% nel 2024.

Che cosa nascondevano quei dati? Una continua perdita di competitività, dovuta ai costi di un’ambizione planetaria che nemmeno la più forte economia del mondo era in grado di sostenere. Da qui il manifestarsi di un gap che poteva essere colmato solo con il ricorso ai debiti esteri. Si fosse trattato di un qualsiasi altro Paese occidentale, la soluzione sarebbe stata di corto respiro. Ben presto i creditori, di fronte a un rischio crescente, avrebbero preteso interessi maggiori. Fino a negare l’ulteriore finanziamento qualora si fosse diabolicamente perseverato nell’errore. Ma gli Stati Uniti avevano il privilegio del dollaro: la principale moneta di riserva che li liberava dal condizionamento estero. Circostanza che spiega la longevità del debito estero e la persistenza degli squilibri della bilancia dei pagamenti.

Quali i vantaggi? Non essere costretti per esempio a politiche deflazionistiche, quale riflesso dell’eccessiva dipendenza dall’estero. Nel periodo 1990-2024 il livello di disoccupazione della Zona Euro, che invece quel condizionamento lo subiva, era stato mediamente superiore del 60 per cento a quello americano (8,8% contro il 5,4%). Il prezzo pagato da questi ultimi, invece, solo un tasso d’inflazione leggermente maggiore: 2,9% (dal 1990 al 2024) contro il 2,6. In compenso, tuttavia, le differenze strutturali, alle quali si è accennato in precedenza, consentivano alla Fed (la Banca centrale americana) una politica monetaria molto più accomodante e rispettosa delle esigenze dello sviluppo complessivo, rispetto alla Banca centrale europea.

Quando si parla del deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, lo squilibrio maggiore è determinato dalla bilancia commerciale, che pesa in media per una percentuale pari al 70 o all’80% del totale. Conseguenza pertanto di un eccesso delle importazioni sulle esportazioni. Il che dovrebbe giustificare l’eventuale richiesta di misure protettive contro l’invadenza dei prodotti stranieri da parte della nuova amministrazione. Senonché le cose non sono così semplici.

Agli inizi degli anni Ottanta il deficit commerciale americano era ancora contenuto, per poi peggiorare leggermente. Nel 1991 aveva raggiunto un valore pari a circa 88 miliardi di dollari (pari al 3,7% del prodotto interno lordo). Nulla a che vedere con quanto sarebbe successo negli anni successivi quando il deficit in piena crisi finanziaria – il crollo della Lehman Brothers – raggiunse un valore pari a 866 miliardi di dollari (il 6,4% del prodotto interno lordo). Per poi ridursi gradualmente, oscillando, tuttavia, intorno a un valore pari a 4 per cento del prodotto interno lordo. Ultimo dato del terzo trimestre del 2024: il 4,5 per cento.

Nel frattempo cambiavano anche i principali partner commerciali. Un ventaglio di cinque Paesi cui attribuire più del 60% del deficit commerciale complessivo. Percentuale che, in alcuni momenti, come nel 1991, aveva raggiunto una percentuale ben più alta: superiore all’80% del totale. In principio, il principale partner commerciale era stato il Giappone: responsabile del 35% del deficit americano nel 1986, e del 53% nel 1991. Ben presto soppiantato dalla Cina, in forte espansione: 28,4% nel 2006; 44% nel 2009; 32,5% nel 2022. A partire dal 2009, al secondo posto il Messico; terzo sempre il Giappone; seguito dalla Germania; quindi dal Canada. Perdevano invece terreno Twain, negli anni precedenti molto più attiva e la Corea del Sud. Impressionante, infine l’ascesa del Vietnam che nel 2022 conquistava il terzo posto. Anche l’Italia otteneva un piazzamento in classifica: ma dalla sesta, settima posizione nel 2022 retrocedeva all’undicesima.

Allargando lo sguardo, è facile notare come a partire dagli anni Novanta, con il consolidarsi dell’iper-globalizzazione (Dani Rodrik), il deficit americano si polarizzava soprattutto nei confronti dei Paesi emergenti del Sudest asiatico, rispetto ai quali lo squilibrio commerciale diventava pari a circa il 50% del totale, con alla testa la Cina che da sola pesava per oltre i due terzi. Non si trattò certo di una scelta subita. Al contrario essa fu conseguenza di precisi indirizzi del dipartimento di Stato e della grande finanza americana che operavano di concerto. Basti pensare alle missioni di Henry Kissinger, avvenute anni prima, presso il Celeste impero. Scelte che, a loro volta, riflettevano i cambiamenti nel frattempo intervenuti nel cuore stesso degli assetti capitalistici del Paese.

Già in quegli anni, nelle zone più avanzate degli Stati Uniti, era iniziata la progressiva demolizione della vecchia fabbrica fordista, di stampo novecentista, con la sostituzione delle nuove tecnologie legate all’ICT (information and communications technology). Quella fase che avrebbe consolidato il passaggio dalla old alla new economy. Che allora non fu caratteristica di tutti i Paesi più industrializzati, ma quasi esclusivamente degli Stati Uniti. Gli altri, infatti, come già si era verificato nell’epoca fordista, si mossero solo con un forte ritardo. La ragione soprattutto nel diverso dinamismo sociale di quel Paese: in cui giovani intraprendenti della Silicon Valley o della Stanford University, supportati da un capitale finanziario sempre più orientato verso il rischio, furono in grado di estromettere dai centri di comando le vecchie famiglie che avevano dominato la realtà americana.

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Si trattò di una vera e propria rivoluzione, seppure silenziosa. Le nuove tecnologie – si pensi a internet – richiedevano un approccio completamente diverso. Che rompeva la dimensione autarchica delle precedenti esperienze, per aprirsi al mondo intero. Che imponeva il superamento delle barriere linguistiche e culturali. Che superava il diaframma della diversità degli assetti istituzionali che, nell’epoca della “guerra fredda”, aveva più volte determinato il rischio di un corto circuito nucleare. Inutile illudersi: il processo fu voluto e guidato soprattutto dagli Stati Uniti, mentre al Resto del Mondo non restava che seguirne la scia, salvo ritagliarsi qualche piccola nicchia in cui prosperare. Anche bene, se si vuole, ma solo di traverso: in balia di eventi che non erano in grado di controllare.

Quella americana non fu comunque una scelta priva di rischi. Come detto in precedenza, le risorse a disposizione erano tutt’altro che illimitate. Già negli anni precedenti il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti aveva evidenziato elementi di sofferenza. Occorreva, pertanto, trovare nuovi capitali in grado di finanziare il passaggio dalla oldalla new economy, senza eccessivi patemi. Furono trovati con le tecniche dell’offshore: dirottando all’estero le attività più obsolete, che trovarono nuova vita grazie all’utilizzo di mano d’opera a basso costo, che permise anche alle vecchie multinazionali del passato di mietere adeguati profitti. Il mercato interno americano garantì loro adeguati sbocchi di vendita: prodotti acquistati dalle famiglie americane a un prezzo enormemente più basso che contribuirono a contenere i processi di inflazione e, al tempo stesso, come si diceva una volta a “ridurre il costo di riproduzione della forza lavoro”. Determinando un aumento del surplus complessivo da poter utilizzare nel processo di ammodernamento produttivo.

L’attualizzazione del vecchio modello ricardiano delle corn laws. Quell’insieme di provvedimenti che nel periodo compreso tra il 1815 e il 1846, aveva consentito all’industria inglese di sconfiggere i grandi latifondisti interni con i loro dazi sulle forniture di grano dall’estero. La loro rimozione determinò nell’immediato una riduzione del costo della mano d’opera e di conseguenza lo sviluppo della nuova base produttiva – l’industria – destinata a diventare dominante. Con l’ovvia differenza della dimensione di scala: un conto era favorire l’industria nascente, come in Inghilterra; un altro promuovere, negli Stati Uniti, la sostituzione della new economy, alle vecchie specializzazioni produttive. Si pensi solo al automotive.

Non sarebbe stato possibile ottenere simile risultati, senza l’aiuto dell’estero. Ma esso fu fornito grazie al modo di operare dei meccanismi di mercato. Al deficit delle partire correnti della bilancia dei pagamenti, corrispondeva, infatti, nel “conto finanziario”, un simmetrico movimento di capitali destinati a coprirlo: sotto forma di investimenti diretti e di portafoglio. I primi destinati a incidere sulla struttura proprietaria del bene acquistato, i secondi (maggioritari) di tipo esclusivamente obbligazionario. Ed ecco allora la quadratura del cerchio: da un lato i prezzi più contenuti per i prodotti old economy importati dall’estero; dall’altro i capitali necessari per la riconversione dell’intero apparato produttivo americano. Ora in grado, grazie al primato assoluto nell’AI (l’Intelligenza Artificiale), di spiazzare nuovamente tutti i possibili concorrenti.

Si dice che Donald Trump abbia vinto la sua partita politica interpretando il senso di smarrimento delle popolazioni degli Stati della Rust Belt (catena della ruggine): Ohio, Wisconsin e Michigan. Principalmente a loro era rivolto lo slogan “America First”. Ma si trattava appunto di un semplice slogan. Visto che il primato gli Stati Uniti lo avevano conquistato in ben altri settori che, a loro volta, erano cresciuti proprio grazie allo smantellamento della old economy, divenuta nel frattempo una palla al piede nel più forte Paese dell’Occidente. Che oggi si presenta, tuttavia, con un debito pubblico pari al 121% del prodotto interno lordo. E un debito verso l’estero che, nel primo trimestre dello scorso anno, era risultato pari a 26,5 trilioni di dollari: oltre il 95% del prodotto interno lordo. Una cifra indubbiamente impressionante, ma anche la plastica dimostrazione del contributo fornito dal Resto del mondo alla ristrutturazione della principale economia del Pianeta.

Gli Stati Uniti gestirono al meglio questi processi, facendo proprie i vecchi suggerimenti degli economisti dell’UNCTAD (UN Trade and Development), i quali, in epoca non sospetta, avevano suggerito ai Paesi più forti di abbandonare i settori primari del loro sviluppo economico (materie prime, agricoltura, industrie ad alta intensità di mano d’opera) per dirottare gli investimenti sui settori più innovativi. Si sarebbe così creato una spazio di mercato in grado di favorire il decollo dei Paesi sottosviluppati. Che, allora, erano ancora considerati “Terzo Mondo”. La scelta americana fu quella di sviluppare altrove le attività dei settori più maturi, in cui gli utili potevano essere maggiormente garantiti da un costo della mano d’opera estremamente contenuta, per poi esportare la relativa produzione verso i grandi mercati di sbocco dell’Occidente. Ed ecco allora spiegato sia il grande sviluppo cinese, sia il crescente deficit commerciale americano.

Fu un’operazione suicida, stando almeno alle lamentele postume dell’establishment americano? Tutt’altro: fu la condizione necessaria per consentire agli Stati Uniti di consolidare la propria posizione sulla new economy, conquistando una leadership che soprattutto oggi, grazie ai possibili sviluppi dell’intelligenza artificiale, è incontrastata. Nella storia del capitalismo era già capitato. Il vecchio teorema ricardiano delle corn law (leggi sul grano) aveva consentito all’Inghilterra di allora di divenire la prima potenza industriale ai danni dei grandi latifondisti inglesi che, in precedenza, con i dazi sulle importazioni di quel prodotto, difendevano le proprie rendite di posizione.

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L’abolizione dei dazi sul grano e lo sviluppo del libero scambio ebbero come effetto una caduta dei prezzi alimentari. Che ridusse il costo di riproduzione delle forza lavoro, consentendo un contenimento dei salari operai a tutto vantaggio degli industriali. I cui maggiori profitti accelerarono il passaggio da una società agricola a una industriale. Nel caso americano la potenza del cambiamento è stata anche maggiore, anche perché alla sua implementazione hanno contribuito i capitali provenienti dal resto del mondo. Se si guarda alla bilancia dei pagamenti americani, è facile vedere come i deficit delle partite correnti sia interamente compensato dal conto finanziario. Vale a dire da quei capitali che i Paesi creditori offrivano come contropartita per la vendita dei propri prodotti nel principale mercato mondiale.

L’analisi dettagliata di quei movimenti dimostra che il grosso degli investimenti esteri era di portafoglio: non incideva cioè sulla proprietà delle diverse strutture produttive, che rimanevano nelle mani dei nativi. Ed anche quando si fosse trattato di investimenti diretti, come mostra il caso di TikTok e non solo, il loro controllo, da parte del dipartimento di Stato, era comunque garantito.



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