«El ruso-alemán Spies, del realismo mágico, ha descrito (…) la esencial naturaleza de las feria mágicas, y el novelista Hermann Hesse, en su Lobo estepario, ha reflejado las posibilidades de horizonte que se abren bruscamente al penetrar en el recinto encantado (…) la destrucción de la habitual perspectiva, todo se rompe (…y) de las astillas de los ángulos de visión se hace un nuevo espacio que posee quince, veinte, treinta dimensiones».
In un sottile, curioso libricino, impresso sulla carta impalpabile che si usava un tempo per tagliare i festoni delle fiere campestri, lo scrittore catalano Juan Eduardo Cirlot – vicino, nell’immediato dopoguerra, al gruppo barcellonese di Dau al Set – ha così spiegato la chiave più continentale di quel surrealismo, enigmistico e concettoso, preso fra le maglie della dittatura; e facendolo, ha ricordato l’esperienza di transfuga culturale nella Parigi fervida e prostrata del ’49, in cerca di una festa mobile interrotta bruscamente dai tuoni del conflitto europeo.
L’aria svagata di manifesto estetico tradotto in impressioni di flâneur puntava ad accordarsi alle prove di Antoni Tàpies o di Modest Cuixart, rapite dai cadaveri squisiti e dal bric-à-brac dechirichiano. In realtà, però, quello smilzo volume, titolato Ferias y atracciones, guardava anche, retrospettivamente, a una genealogia illustre d’avanguardia spagnola, parallela in fondo – ma a date confacenti – agli esiti francofoni di un Dalì o di un Juan Gris.
Lo comprova, con chiarezza esplicativa e attraverso una casistica sorprendente, la mostra aperta, sino al 10 marzo, al Reina Sofía di Madrid, quasi fratellando le due capitali in un’unica, grande verbena; e lo fa, con efficacia tanto maggiore, perché il percorso – mosso pure da un afflato centenario – s’integra, opportuno, alle prime sale della permanente, in un intenso dialogo di opere e testimonianze.
Costruita per ripensare l’impatto di un letterato audace quanto Ramón María del Valle-Inclán sull’immaginario di primo Novecento, al punto di servirsi della sua biografia per offrire un fil rouge al pubblico del museo, l’esposizione ripercorre assieme l’atlante personale dello scrittore, chiarendo quanto un certo attaccamento «tradizionalista» a fenomeni d’intrattenimento popolare (la tauromachia, su tutto) venisse da questi digerito, suggerendo al secolo forme critiche e originali, pronte a sfatare l’apparente floridezza di una certa, contemporanea Belle Époque.
In tal senso si rivendica la funzione novatrice di Valle-Inclán, soprattutto delle sue esperienze di firma per il teatro; e se viene da avvicinare l’immagine elegante del gallego alle esperienze di un Pirandello o di un Brecht (ma anche alle trovate di un Copeau e, perché no, di un Bontempelli), è soprattutto nella definizione di una categoria interpretativa come quella dell’esperpento che va cercato non solo l’armamentario efficace delle sue proposte per il palco, ma anche il contributo originale a una certa poetica «distorsiva» dell’avanguardia primo-novecentesca.
Non è un caso se la mostra, aperta alla fine dell’anno passato, ha ribattuto sull’anniversario tondo della pubblicazione di Luces de Bohemia, il testo – mai messo in scena durante la vita dell’autore – in cui si discute apertamente, in dialogo socratico fra gli sgabelli incomodi di caffè madrileni, sulla natura più profonda di un simile trovato, rimandando a un tempo alle alterazioni grottesche della moderna pittura spagnola e all’ottica assurda degli specchi deformanti.
Max Estrella, profeta della débauche al centro del copione, dichiara infatti, scagliandosi contro la superficialità degli «ismi» nazionali: «El esperpento lo ha inventado Goya. Los héroes clásicos reflejados en los espejos cóncavos dan el Esperpento. El sentido trágico de la vida española solo puede darse con una estética sistemáticamente deformada».
In mente certo i sogni allucinatori e comici di Don Chisciotte, Valle-Inclán ha inteso accostare il museo al baraccone. I curatori (Pablo Allepuz, Rafael García, Germán Labrador, Beatriz Martínez, José A. Sánchez, Teresa Velázquez) hanno avuto così gioco facile nel riunire, al Reina Sofía, i materiali più eterogenei di una giostra improvvisata, associando le affiche terrifiche di celebri prestigiatori alle réclame di mentalisti non meno tenebrosi, le stampe popolari e le lampade magiche, le caricature alle ombre cinesi, la satira politica al grand guignol, le maschere ai volantini gualciti, prodromi tutti alle due sessioni successive, quelle consacrate al destino fatale della Spagna contemporanea, dal disastro coloniale al colpo di stato voluto da Primo de Rivera.
Sullo sfondo la tragedia della guerra «meccanizzata», l’esposizione continua infatti presentando immagini reali dell’impoverita, sanguinaria monarchia borbonica, avvicinandone i traguardi crudeli ai retablos di marionette che lo scrittore comincia a comporre a partire dagli anni venti, mentre volge al termine l’estremo governo di Alfonso XIII. Come se quell’istituzione millenaria, coi suoi effetti cancerosi, potesse ormai riflettersi soltanto nei quadri inespressivi di un teatro di legno, scandito nel ritmo additivo proprio agli altari scompartiti d’immense cattedrali gotiche.
L’epica di quei racconti in oro e carminio diventa tuttavia in Valle-Inclán la povera fabula di una commedia di pupi, orientata all’esperienza di Vittorio Podrecca (e chissà se il galiziano ebbe modo di conoscere, sempre in eco dall’Italia, le creazioni di Maria Signorelli, oltre a Siepe a Nordovest apparso su «La Lettura» nel 1919); e per pensare l’attualità della sua oeuvre, occorre tenere a mente che nel ’25 un altro grande protagonista dell’intellettualità spagnola del tempo, José Ortega y Gasset, più giovane di una generazione, avrebbe pubblicato un pamphlet celebre, solo all’apparenza conservatore, come La deshumanización del arte, fornendo un contributo di peso alla riflessione estetica del paese e, più in generale, al pensiero europeo.
In questo senso però, ciò che fa la qualità della mostra è proprio l’idea di accomunare Valle-Inclán a tutta una sequenza di nomi che in maniera intermittente vengono accolti nel canone più condiviso dell’avanguardia spagnola (e al riguardo, basti leggere l’agile compendio pubblicato di recente per Carocci da Gabriele Morelli, per restare a una voce nostrana sul tema).
Si pensi ad esempio a una figura cardine come quella del castigliano José Gutiérrez Solana, rappresentato in percorso da una coppia delle molte tele nelle raccolte del Reina Sofía. Autore anche di un rilevante libro di memorie fantastiche come La España negra, il pittore è stato vittima di una vera e propria distorsione critica – in chiave, per così dire, «strapaesana» – lungo gli anni lenti del Franchismo: tuttavia, appunto per via di esperpento, si presenta fra le voci vive di un espressionismo iberico, chiamato a trasfigurare in chiave tremendista, la realtà quotidiana dei suoi connazionali.
Il museo gli dedica, a ragione, uno spazio rilevante pure fra le sale della permanente; come riserva un’ampia illustrazione a un autorevole interlocutore per la poetica valleinclaniana, e cioè al volto ridente, sornione di Ramon Gómez de la Serna, padre nobile, monumento vivo della rinascita artistica spagnola agli albori del secolo.
In collezione si possono studiare le ante di finestra del suo studio cittadino, trasformate in un caotico, enciclopedico collage di immagini e frammenti (prima dell’esilio in Argentina), ma anche corti, più tardi, come Esencia de verbena, montaggio lirico dedicato nel ’30 alle ferias di Madrid. Tuttavia, è nelle brevi sue greguerías che si possono riconoscere alcuni paralleli parlanti dell’esperpento; mentre nel suo dizionario Los Ismos, pubblicato nel 1931, compaiono righe come queste, che rivendicano l’autore dell’incompiuto Ruedo ibérico alla medesima famiglia intellettuale: «Este aire de barraca de feria, de arrabal ruso o judio, donde todo llora o conta en el estricto momento de la vida».
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