TRA ENERGIA E INVESTIMENTI/ Le scelte anti-crisi che l’Italia può fare senza aspettare l’Ue

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Il quarto trimestre dell’anno che si è da poco concluso non ha portato buone notizie per l’economia italiana. Nemmeno il Natale sembra aver risvegliato i consumi che si sono di nuovo ridotti dopo la ripresa estiva. A questa stagnazione interna s’aggiungono i guai che arrivano dall’esterno. La locomotiva tedesca sbuffa e le esportazioni si riducono: intendiamoci 71 miliardi di euro non sono noccioline, ma nel 2022 erano 77 miliardi, più del doppio rispetto al 2009. Inoltre, l’incognita Trump spinge ad astenersi dalle scelte produttive: un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni come quella italiana sarà colpita seriamente se davvero il Presidente americano manterrà fede alle sue rodomontesche promesse.



Forse Trump verrà a più miti consigli di fronte alla realtà: raddoppiare le tariffe sui beni importati genera inflazione e proprio l’aumento dei prezzi è uno dei fattori che ha spinto una gran massa di voti verso The Donald. Ma l’Italia è molto esposta: gli Stati Uniti rappresentano l’11% delle esportazioni italiane, il loro volume è arrivato a 63 miliardi di euro, il doppio rispetto a dieci anni fa. Inoltre, l’Italia ha un netto attivo nella bilancia commerciale rispetto agli Usa e questo può spingere Washington ad alzare uno steccato anche verso i prodotti italiani.

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Sia il Fondo monetario internazionale, sia la Banca d’Italia nel suo bollettino confermano previsioni di crescita molto modeste per il commercio mondiale (attorno all’un per cento) e per l’Italia (+0,5% quest’anno e se va bene +0,8% l’anno prossimo secondo la banca centrale, +0,7% secondo il Fmi). Ciò spingerà il Governo a rivedere le ottimistiche previsioni in base alle quali ha costruito la sua politica di bilancio.

Particolarmente colpita è l’industria manifatturiera che non si è ripresa dallo choc energetico post-pandemia aggravato dallo stop al gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina. Non è una questione di quantità, ma di costi, gli stessi che hanno gonfiato l’inflazione. Mentre i prezzi al consumo si sono ridotti anche più delle attese (sono ormai sotto il 2% annuo), i prezzi dell’energia sono rimasti molto più alti e stanno registrando addirittura un rimbalzo. L’incidenza dei costi dell’energia sull’economia in Italia è superiore al 12% ed è circa il triplo rispetto a Francia e Spagna e quasi il doppio della Germania. E il gas fa ancora da padrone soprattutto nella manifattura(è il 70%).



La produzione industriale è scesa per ben 22 mesi, la Confindustria registra regolarmente questa dinamica negativa. Le sue indagini periodiche sono dei continui campanelli d’allarme. L’ultima congiuntura flash pubblicata venerdì sottolinea che non solo i consumi, ma anche l’occupazione si è quasi fermata tra ottobre e novembre e c’è un forte calo di chi cerca lavoro. In conclusione, tra le componenti internazionali e quelle interne c’è una stretta correlazione.

Il dibattito pubblico e quello politico in particolare, dopo aver esultato per il buon andamento dell’economia nella prima parte dell’anno, ha tardato a prendere consapevolezza della svolta avvenuta in estate. Anche adesso l’atteggiamento prevalente tende a sottovalutare le debolezze interne e a gettare l’intera responsabilità della frenata sulla Germania e sulla zavorra che arriva dall’esterno. L’idea, insomma, è aspettare che passi la nottata e arrivi un Godot sotto forma di una ripresa internazionale che, però, non è prevista quest’anno, se il Fmi non si sbaglia. Sarebbe importante, invece, rendersi conto di come invertire le spinte endogene.

Se non vogliamo aspettare Godot dobbiamo agire innanzitutto sugli investimenti privati che sono in netto calo. Ciò si può fare sia rivedendo e potenziando il sistema degli incentivi alle imprese che investono, sia agendo sui fattori della produzione. A cominciare dai costi non salariali perché la tendenza al ribasso non viene certo dalle retribuzioni che restano modeste soprattutto in termini reali: salari e stipendi in media non hanno tenuto il passo dei prezzi e nemmeno dei profitti.

Il primo costo da aggredire riguarda l’energia. I tetti sono pannicelli caldi se non si rivede l’intero meccanismo di formazione del prezzo finale. È un’operazione che chiama in campo l’Unione europea, ma l’Italia non può aspettare Bruxelles e non deve farlo. L’energia è più cara, anche molto più cara che in altri Paesi come la Spagna o la Francia. Nell’uno e nell’altro caso il mix energetico è migliore sia per l’uso del nucleare (in modo massiccio in Francia, ma consistente anche in Spagna con le sue quattro centrali), sia per infrastrutture come i rigassificatori spagnoli che danno molta più flessibilità sulle fonti e i mercati di approvvigionamento.

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La politica energetica italiana in questi anni è stata quasi esclusivamente cercare nuovi mercati per coprire il buco del metano siberiano. Ha avuto successo, ma non c’è stato null’altro di consistente. Le scelte energetiche richiedono tempo prima di produrre benefici; l’Italia è in ritardo e paga pegno in termini di prezzi finali e di costi che ostacolano la produzione.

Più in generale, nessun Godot ci tirerà fuori dalla stagnazione se non lo facciamo prima noi. Il Governo dovrebbe mettere al centro della sua politica per il 2025 una spinta robusta alla crescita dell’industria, snodo cruciale per lo sviluppo nei prossimi anni nei quali tra l’altro si esaurirà il Pnrr. Non è questione di ricorrere a qualche trovata estemporanea, occorre coinvolgere il mondo del lavoro e della produzione in una strategia che, pur tenendo sotto controllo i conti pubblici, dia impulso agli investimenti privati, leva fondamentale della crescita.

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