Nel caso in esame, la Corte territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto la domanda proposta dal dipendente di una società di telecomunicazione, invalido civile e addetto all’assistenza tecnica di primo livello alla clientela business presso la sede di Napoli, di svolgere la propria attività lavorativa da remoto o in regime di lavoro agile.
Considerati i gravi deficit visivi del lavoratore, la Corte aveva accertato una violazione dell’art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. 216/2003 poiché la società datrice di lavoro non aveva adottato i “ragionevoli accomodamenti, prescritti dalla norma in funzione antidiscriminatoria con riguardo ai lavoratori con disabilità”.
Avverso la decisione di secondo grado la società soccombente ricorreva in cassazione con due motivi a cui resisteva il lavoratore con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel formulare la sua decisione, sottolinea che la tutela contro la discriminazione fondata sulla disabilità è fornita dalla Direttiva 2000/78/Ce e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Quest’ultima:
- include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 che sancisce il divieto generale di discriminazioni;
- riconosce all’art. 26 ai disabili il diritto di beneficiare di misure atte a garantire la loro autonomia, il loro inserimento sociale e professionale nonché la loro partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).
Inoltre, la Corte di Cassazione richiama la convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, la quale impone ai datori di lavoro di apportare “accomodamenti ragionevoli” per assicurare il principio di parità di trattamento delle stesse.
Orbene, nel caso di discriminazione diretta la disparità di trattamento è determinata dalla condotta mentre in caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittima (cfr. Cass. n. 20204/2019). Il termine di paragone per valutarla è rappresentato dalle modalità della prestazione per i lavoratori non portatori di gravi disabilità.
La questione degli “accomodamenti ragionevoli” possibili e praticabili in concreto si sposta, pertanto, sul piano probatorio. E su questo piano, continua la Corte di Cassazione, la sentenza impugnata si conforma al regime probatorio specifico e speciale vigente nel diritto antidiscriminatorio.
Infatti, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari stabiliti dall’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali dettati dall’art. 4 del D.lgs. 216/2003. Quest’ultimo non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del lavoratore (cfr. Cass. n. 1/2020, Cass. n. 6497/2021).
Per effetto dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta a seguito del recepimento delle Direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, grava sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che ritiene essere meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, evidenziando, al contempo, una correlazione significativa tra questi elementi. Il datore di lavoro, invece, deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura contestata.
Nel caso di cui è causa, ad avviso della Corte di Cassazione, la Corte distrettuale ha verificato l’effettiva praticabilità di “ragionevoli accomodamenti”, in conformità ai principi stabiliti dalla Direttiva 2000/78/CE, per rendere concretamente compatibile l’ambiente di lavoro con le limitazioni funzionali del lavoratore disabile. In particolare, non ha ritenuto che il datore di lavoro si trovasse nell’impossibilità di adottare tali accomodamenti organizzativi ragionevoli, tenendo conto di ogni circostanza rilevante nel caso concreto (cfr. Cass. n. 5048/2024).
Il ragionevole accomodamento organizzativo, che non comporta oneri finanziari sproporzionati ed è idoneo a contemperare – in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza – l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro adeguato alla propria condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa, è stato individuato nella soluzione dello smart working dall’abitazione, già utilizzata nel periodo pandemico (cfr. Cass n. 6497/2021, Cass. n. 9870/2022).
La procedimentalizzazione della facoltà della persona con disabilità di richiedere l’adozione di un accomodamento ragionevole, con il conseguente diritto di partecipare alla sua individuazione, ne evidenzia il carattere vincolante. Ed il rifiuto costituisce una discriminazione vietata tant’è che la sua violazione si traduce nella “violazione di doveri imposti per rimuovere gli ostacoli che impediscono ad una persona con disabilità di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori realizzando così una discriminazione diretta” (cfr. Cass n. 14307/2024).
La Corte di Cassazione decide, pertanto, per il rigetto del ricorso presentato dalla società con sua condanna alle spese del giudizio.
Fonte: Cass. 10 gennaio 2025 n. 605
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