Oliviero Toscani, a me gli occhi

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Si può solo immaginare lo sguardo forse corrucciato o spaventato, ma magari anche divertito del piccolo Oliviero Toscani quando a poco meno di sei anni si ritrova d’innanzi agli affreschi del 1485 che occupano la facciata e gli interni dellOratorio di San Bernardino, sede della Confraternita dei Disciplini di Clusone in Val Seriana. Il tema è quello della morte, la danza macabra appare così sotto forma di uno scheletro: la Morte Regina che trionfa su un’umanità disperata che viene ripetutamente colpita da due scheletri mentre attorno galleggia un mare infinito di cadaveri.

L’opera è dell’artista albinese Giacomo Borlone de Buschis, un artista sostanzialmente locale che operò tra Clusone e Solto Collina. In bilico tra l’arte medievale e un Rinascimento ancora per lui difficile da comprendere, il pittore sembra però cogliere con la sua Danza Macabra – anche nella sua anti-contemporaneità dell’epoca – un sentimento fortemente moderno e universale. E forse proprio quel senso dell’ineluttabilità della morte unito a non poca ironia e a un gusto e uno stile che seppe attraversare i secoli penetrò nelle pupille del piccolo Oliviero, accendendo un istinto e un immaginario che sarebbe divenuto originale e seducente.

Oliviero Toscani visse fino a circa sei anni a Clusone, sfollato con i genitori durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato a Milano nel 1942, Toscani è un figlio d’arte e proprio qui è rintracciabile un secondo indizio, un’ulteriore traccia di uno stile e di un gusto fotografico irriverente e provocatorio. Il padre infatti fu un importante fotoreporter del Corriere della Sera e delle principali agenzie fotografiche dell’epoca tra cui Publifoto, Olycom e LaPresse. Fu il primo, nel 1933, a cogliere in uno scatto Wallis Simpson insieme a Edoardo d’Inghilterra (che per lei abdicò rinunciando al trono), ma documentò anche i corpi straziati dei cadaveri di Mussolini e Claretta Petacci a piazzale Loreto. E poi seguì la rivoluzione di Franco Basaglia con l’abbattimento dei manicomi lager da Gorizia a Trieste, con reportage per L’Espresso. Fu, infine, tra i primi fotografi a immortalare le prime edizioni di Miss Italia. Oliviero Toscani accompagnava ancora ragazzo il padre nei suoi servizi, incrociando inevitabilmente mondi diversi, spesso opposti gli uni agli altri. E arrivò, a quattordici anni, a pubblicare la sua prima fotografia proprio sulle pagine del Corriere.

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Sembra proprio di vederlo, il giovane Oliviero, mischiare le carte, confondere i piani, far saltare gli schemi, lui che – in un’epoca in cui le fotografie erano pochissime, ma al tempo stesso erano tutto il visibile possibile del mondo –, aveva già visto direttamente e indirettamente la morte e la sua messa in scena, il mondo dei ricchi e quello dei poveri e tutta la distanza che corre tra gli esseri umani di classi sociali diverse. Una distanza che nella sua carriera tenderà a cancellare o quanto meno a ridurre in nome di un oltraggio sempre possibile e in alcuni casi dovuto in particolar modo agli ultimi, ovvero a chi non ha immagine e quindi non una propria voce udibile.

Scrive nella sua autobiografia pubblicata nel 2022 per La nave di Teseo, Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista: «È doloroso lasciarsi stupire dal mondo. È faticoso non abituarsi allorrore né alla bellezza. Io non ho nessuna idea ma non ho paura di guardare. Ecco il situazionismo. O hai una prospettiva, la tua, o non ne hai nessuna. Non mi sono mai lasciato abbindolare dal mito dellobiettività. Tutto il mio lavoro è stato questo, tutta la mia vita». Perplesso (per usare un eufemismo) sui presunti creativi, Toscani ha sempre preferito farsi attraversare dalle idee (spesso altrui) piuttosto che credere di essere un creatore. L’originalità non è mai stata per lui il frutto di un’idea originaria, ma invece la conseguenza di un gesto, di un movimento anche casuale o imprevisto. Un’azione pratica che va dunque a mutare il panorama e contemporaneamente il discorso che è in grado di produrre. Un’interferenza, un colpo che restituisce un orizzonte di senso rinnovato e inedito.

Foto: press

Quasi tutti i gesti di Toscani sono subito chiari ed efficaci, in un certo senso prevedibili, ma sempre a posteriori. Come succede solo, per l’appunto, con i più grandi artisti. Per Toscani la fotografia era infatti uno strumento popolare, con potenziale di alta diffusione, in grado di dare così un corpo rivoluzionario e un senso inedito a un gesto che si sarebbe rifratto all’infinito. Facile ora elencare le boutade, le campagne pubblicitarie blasfeme, i corpi esposti in maniera anche gratuita e violentemente diretta, ma resta comunque un vedere che agisce sul post-Toscani.

La fotografia di Toscani è percepibile infatti solo a scoppio avvenuto. Andrebbe fatto invece un esercizio di contestualizzazione su cosa era la società prima che piombasse in primo piano, sui giornali e sui cartelloni pubblicitari stradali, il sedere di Donna Jordan fasciato dai jeans Jesus con lo slogan “Chi mi ama mi segua”, che costerà alla campagna la denuncia di blasfemia da parte dello stato Vaticano. Siamo allora nel 1973. Sicuramente gli anni sono fervidi, ma solo nel 1972 l’uscita di Ultimo tango a Parigi è costata a Bernardo Bertolucci una condanna e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni oltre all’obbligo di bruciare tutte le copie del film (solo una copia si salverà dopo una rocambolesco viaggio oltre confine). In Italia il governo è presieduto da Giulio Andreotti al suo secondo mandato da Primo Ministro, a cui farà seguito nell’estate del 1973 il governo presieduto da Mariano Rumor (i famosi governi balneari).

Tra i ministri spiccano Oscar Luigi Scalfaro all’Istruzione, noto per le posizioni ultracattoliche e beghine, mentre il democristiano Italo Giulio Caiati presiede un sintomatico Ministero per i problemi per la gioventù. Precedentemente Caiati era stato anche sottosegretario al Ministero della Marina Mercantile, ça va sans dire. In questo panorama, l’eterodossia di Oliviero Toscani s’impone con tutta la sua forza dettata anche da uno sguardo internazionale, frutto del rapporto con Andy Warhol e la sua Factory e alle innumerevoli collaborazioni con le principali riviste e case di moda. Il suo linguaggio è esplosivo e mai come allora capace di raccogliere l’eredità del movimento giovanile che da Berkley alla Sorbona, fino al Dams di Bologna, ha ridisegnato l’identità delle nuove generazioni che ormai stanno accedendo al mondo del lavoro rivoluzionando linguaggi e modi di vivere.

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La moda diviene il nuovo sanpietrino nelle mani di un fotografo che si trova totalmente a suo agio con il colore e con gli spazi di libertà che permette alla fotografia contemporanea. Arriva così United Colors of Benetton, ed è l’inizio di una collaborazione che, se darà una nuova e vibrante identità a Benetton, permetterà anche a Toscani di esprimersi con margini di libertà quasi assoluti. Le campagne di susseguono e a oggi offrono un’idea meno stupidamente patinata di quello che sono gli anni Ottanta e i primi anni Novanta italiani.

Dunque non solo la Milano da bere, ma una provincia, nello specifico Ponzano Veneto, Treviso, tutta da colorare e capace d’invadere il mondo con un immaginario globale che ha ben poco di italiano e che anzi proprio in Italia viene fortemente criticato. Si parla infatti ancora di irriverenza e blasfemia e si fa fatica, lungo il parallelo di Roma, a distinguere la rilevanza culturale e politica di Toscani dalla paccottiglia furbissima dell’immaginario berlusconiano emergente che invade proprio da allora le case degli italiani. Due fronti opposti spesso erroneamente assimilati, segno evidentissimo di una totale incapacità di cogliere il senso della contemporaneità. Così mentre Toscani portava la provincia italiana a New York, Parigi e Los Angeles, il paese sceglieva allegramente – come in un film riuscito male di Alberto Sordi – di restare a Cologno Monzese come a Milano Due, illudendosi che il mondo potesse contenersi tutto tra il laghetto dei cigni e l’attico di Sandra Mondaini e Raimondo Vianello.

Toscani rischiò anche di finire attore su proposta di Michelangelo Antonioni, che lo voleva commissario in Sotto il vestito niente: «Dovevo interpretare il commissario Bonanno, che indagava sullomicidio di una top model scannata con le forbici. Visto che per Blow-Up ho fatto fare a un attore il fotografo, ora voglio dare la possibilità a un fotografo di fare lattore,” mi disse Antonioni». Ma alla fine non se ne fece nulla, anche perché il film fu tolto allo stesso Antonioni, giudicato troppo vecchio dalla produzione che preferì affidare il progetto all’emergente Carlo Vanzina. Ma resta però attualissima l’intuizione di Antonioni in cui fotografia e finzione s’intrecciano attorno a un’indagine sulla verità, e su come l’oggettività della fotografia sia detestabile come un’ideologia rigida e schematica perché incapace di cogliere i sommovimenti contraddittori della realtà.

Oliviero Toscani fu infatti tra i pochi della sua epoca in grado – anche nelle sue più selvatiche dichiarazioni per mezzo stampa – di esporre la realtà al grado zero, e per farlo fu un grande regista di sé stesso. Seppe mettersi in scena liberando un narcisismo a tratti ridicolo e a tratti consolatorio, che però conteneva il segno vivido di un tempo e delle sue stesse e inaggirabili patologie. L’opera che più resta in quel delicatissimo equilibrio tra irriverenza e sacralità è probabilmente il reportage Sant’Anna di Stazzema. 12 agosto 1944. I bambini ricordano (pubblicato da Feltrinelli e oggi purtroppo fuori catalogo) in cui il fotografo ripercorre la strage nazi-fascista attraverso lo sguardo e gli occhi ritratti delle donne e degli uomini che sopravvissero da bambini.

In quello sguardo individuale e collettivo appare la tragedia di un secolo e il segno irriducibile di un’infanzia violata, di una gioia dimenticata per sempre, ma traspare anche la vitalità di una resistenza alla vita e ai suoi scherzi macabri. Annota in chiusura di Ne ho fatte di tutti i colori: «Quando mi guardo allo specchio e non mi riconosco, nemmeno limmagine riflessa riconosce me. Riconoscersi, riconoscere. Ambizioni quasi irrealizzabili». Eppure in ogni suo scatto è per noi oggi facile riconoscere con lui anche la nostra storia. Una storia contraddittoria, colorata, splendente e anche cafona, decadente e ovviamente blasfema. L’attimo è stato colto e con esso il senso di una vita collettiva che contempla gli occhi di chiunque sia vittima o aguzzino, fotografo o spettatore, amante o traditore. È stata una gioia infinita e lo è ancora pensare di averla vissuta in parte anche con i suoi occhi.





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