Progetto di vita: il cambiamento non è più utopia

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Progetto di vita. Da anni – dall’avvio dei progetti relativi alla legge 112 sul “Dopo di Noi” ma in particolar modo dall’uscita della legge delega 227/2021 sulla riforma in materia di disabilità da cui è scaturito il decreto attuativo decreto legislativo  62/2024 – non si parla d’altro. Ne parlano le persone con disabilità, i famigliari, gli operatori del settore, i più autorevoli rappresentanti delle associazioni di famiglie… Tutti si stanno chiedendo se finalmente qualcosa cambierà nella modalità di presa in carico della persona con disabilità, se finalmente ci saranno le risorse per tutti, sia per coloro che desiderano realizzare un progetto di vita indipendente che sia inclusivo per davvero nel mondo dei “normodotati”, sia per chi spera in una sistemazione appropriata del proprio familiare che vive ancora a casa con i genitori o con altri parenti.

Una cosa è certa: lo Stato italiano con la legge delega 227/2021 e con il decreto 62/2024 ha fatto un passo importante verso la realizzazione di una procedura finalizzata a rendere concreto qualcosa che era stato enunciato più di vent’anni fa con la legge 328/2000, ma di fatto mai reso esigibile per tutte le persone con disabilità. Ora la palla passa agli altri attori in campo: le pubbliche amministrazioni locali, gli enti del Terzo settore, le associazioni dei famigliari, ma soprattutto le persone con disabilità e le loro famiglie. 

Ma cosa davvero si sa allo stato attuale sul “progetto di vita”? E soprattutto, che cambiamento ci aspettiamo produca rispetto alla situazione attuale? Penso occorra partire da un tentativo di confronto e di risposta a queste due domande, se davvero vogliamo che il progetto di vita possa rappresentare un’innovazione che cambi la vita delle persone e non si riduca ad essere solo un nuovo adempimento.

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L’esperienza personale

Nel 2000, quando mia figlia nacque, furono subito evidenti i segnali che la sua vita non avrebbe seguito un corso “normale” a causa di una condizione di disabilità particolarmente complessa e severa che impone tuttora un livello di protezione e di sostegno molto elevati. All’epoca, la prima cosa che noi genitori abbiamo dovuto elaborare è stata una sorta di “piano b”, un’alternativa possibile al progetto di vita che avevamo pensato e idealizzato per lei prima che nascesse. Non è stato né facile, né immediato, né a costo zero, né senza sofferenza. 

Ora però, a distanza di 25 anni, posso dire che mia figlia è stata fortunata rispetto ad altri bambini nati come lei perché pur nei limiti delle sue capacità di comprendere sta bene. È felice e vive una vita “autonoma” nella misura in cui se noi genitori venissimo a mancare lei avrà comunque tutto quello che le serve perché attorno a lei c’è una rete di servizi, operatori, professionisti e volontari che hanno realizzato e mantengono nel tempo, modificandolo a seconda delle necessità, un sistema di protezione sociale molto elevata, necessaria ed essenziale per la sua incolumità e quindi anche per il suo benessere: qualcosa che vale più della somma delle sue componenti.

Se io dovessi definire cos’è un progetto di vita lo penserei quindi come un sistema dinamico che si evolve con il tempo a seconda dei bisogni, delle aspettative e delle esigenze delle persone per cui è realizzato. E che non può prescindere da due componenti: il capitale umano e le risorse economiche

Se io dovessi definire cos’è un progetto di vita lo penserei quindi come un sistema dinamico che si evolve con il tempo a seconda dei bisogni, delle aspettative e delle esigenze delle persone per cui è realizzato. E che non può prescindere da due componenti: il capitale umano (professionisti vari quali medici, assistenti sociali, educatori professionali, assistenti personali, ecc) che supporta la persona nel valutare i bisogni e i sostegni necessari per poi progettare e le risorse economiche messe a disposizione del progetto affinché lo stesso sia sostenibile, realizzabile e mantenibile nel tempo. 

Quindi non un sistema standardizzato di risposte, non un sistema frammentato, non un sistema generato da una situazione emergenziale, non un sistema precario di risorse, non un sistema improvvisato a seconda di chi c’è in quel momento a governare. 

Da quest’ultima considerazione emerge la risposta alla seconda domanda: quale cambiamento ci aspettiamo da una presa in carico governata dal progetto di vita? Eccolo.

  • Risposte adatte alle aspettative di vita e al bisogno di ciascuna persona con disabilità;
  • Risposte flessibili e rimodulabili nel corso della vita;
  • Risposte personalizzate e coerenti per promuovere davvero qualità di vita;
  • Risposte che possano essere oggetto di programmazione e prevedano la possibilità di attivare sostegni non solo quando il problema diventa un’emergenza personale o sociale; 
  • Risposte che non dipendano dalle persone che governano in quel momento ma da un’organizzazione stabile del sistema di welfare territoriale.

E tutto ciò non può essere né facile, né immediato, né a costo zero, però potrà, se realizzato bene, evitare tanta sofferenza alle persone con disabilità e alle loro famiglie.

Dalla teoria alla pratica

Ora la domanda che tutti ci poniamo è quella di come si passerà da un concetto teorico enunciato in modo così chiaro, preciso, puntuale nel decreto legislativo 62 alla pratica, cioè all’effettiva realizzazione di ciò che è previsto dal costrutto normativo. 

Sicuramente non si può prescindere dalla formazione degli attori coinvolti, operatori del pubblico e del privato sociale: questa è stata infatti la prima azione concreta prevista dal decreto 62 realizzata a fine 2024 nelle nove province scelte, con un anno di sperimentazione sul campo. Formazione fondamentale soprattutto in quei territori in cui non sono state ancora sperimentate modalità di progettazione personalizzata come invece avvenuto ad esempio sui territori che hanno già avviato da anni i progetti del Dopo di Noi finanziati dalle risorse della Legge 112/2016. Progetti senz’altro precursori del decreto 62, soprattutto per quanto riguarda la proceduralizzazione necessaria per la loro esecuzione a partire dall’impegno delle UVM nel valutare bisogni, aspettative e sostegni che costituiscono la base su cui poter progettare i percorsi di vita delle persone con disabilità. Questi territori potranno in un certo senso fare scuola agli altri, in quanto hanno già affrontato le difficoltà di un approccio multidimensionale della persona in chiave co-progettuale e hanno realizzato un sistema sperimentale di infrastruttura organizzativa con gli enti pubblici locali.

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Le risorse

Abbiamo detto quindi del capitale umano preparato. E le risorse? Ci sono o non ci sono? A mio modesto e ottimistico parere ci sono ma vanno ricomposte, riorganizzate, ricollocate, per poterle ottimizzare e farle fruttare. 

Noi viviamo in provincia di Pavia, in un territorio in cui c’erano poche opportunità di sostegno residenziale rispetto ai bisogni delle persone con disabilità. Ma in pochi anni grazie all’opportunità data dalla legge 112, dalle misure dei Pro.VI e del Pnrr, grazie alla lungimiranza di enti gestori locali, tra cui anche molte realtà del circuito Anffas di cui fa parte la nostra cooperativa sociale e all’impegno istituzionale degli enti pubblici (comuni, piano di zona, Ats ed Asst), oggi le opportunità per mia figlia e per i suoi compagni di viaggio si sono moltiplicate. 

Non esistono luoghi chiusi, contenitori fissi, proposte pre-confezionate ma luoghi di vita in cui vivere e sentirsi come tutti gli altri cittadini: biblioteca, chiese, teatri, parchi, orti, in cui fare attività oppure semplicemente creare nuovi legami. E tutto questo per realizzare una vita di benessere e quindi una “buona qualità di vita” (un concetto quest’ultimo che viene spesso enfatizzato ma che per noi genitori può apparire difficile da comprendere e da perseguire concretamente).

Come genitore vorrei che tante altre famiglie potessero sentirsi come mi sento io, semplicemente tranquille per il futuro dei propri figli. E nello stesso tempo vorrei che tanti giovani genitori che sono alle prese con un figlio con disabilità avessero una strada davanti già tracciata, più agevole di quanto è stata la mia all’inizio, in modo da non provare la solitudine o lo smarrimento di una situazione inaspettata ma l’accoglienza di chi sa come guidarti in un percorso difficile di suo che lo diventa ancora di più se lo si percorre da soli.

Mettendomi infine nei panni di una persona con disabilità, vorrei che la mia vita non dipendesse in modo prevalente od esclusivo da altri che la governano e ne decidono il corso basandosi su ciò che mi manca. Vorrei in sostanza non fare lo spettatore ma sentirmi il protagonista del film della mia vita, bella o brutta che sia, ma guardandola comunque sempre dal mio punto di vista.

Tutto questo è utopia o è davvero realizzabile partendo dal sistema attuale? Qualche anno fa avrei detto che “utopia” era la parola giusta. Ora invece penso che non si possa definire utopia qualcosa che è già stato realizzato

Tutto questo è utopia o è davvero realizzabile partendo dal sistema attuale? Se mi fossi posta questa domanda solo qualche anno fa avrei detto che “utopia” era la parola giusta da usare. Ora invece rispondo che se l’uomo non avesse provato a far diventare reale il sogno di andare sulla luna non avrebbe mai costruito il primo razzo. Ora penso che non si possa definire utopia qualcosa che è già stato realizzato. Perché osservo che oltre al nostro territorio ci sono altre esperienze positive in tutta Italia che hanno già sperimentato la metodologia della progettazione individuale che ci fanno ben sperare in un vero cambiamento. 

Il sistema attuale dei servizi, per quanto essenziali e non sostituibili, da segnali di “stanchezza” in termini di rispondenza ai bisogni di vita delle persone evolutisi nel corso del tempo: i segnali di ciò mi sembrano molto evidenti e confermati anche dalla lettura delle organizzazioni di Terzo settore nonché dalla normativa delle istituzioni, con particolare riferimento a Regione Lombardia, che con una visione davvero condivisibile nelle regole di sistema appena pubblicate (vedasi DGR 3670/2024 pag. 73) prevede, relativamente al riordino dei servizi esistenti, come «essenziale» un’analisi tesa a «verificare la rispondenza dei requisiti di accreditamenti definiti nei primi anni del 2000 agli attuali bisogni», utilizzando termini molto cari a noi genitori: 

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  • scale di valutazione di facile utilizzo per finalizzare il tempo dell’operatore all’attuazione del progetto individuale, 
  • indicatori di misurazione di processo, ma anche di esiti,
  • introduzione di un “case manager” come figura di riferimento per il governo del progetto individuale, 
  • formazione su modelli e strumenti snelli in grado di rilevare il mutare dei bisogni e costruire risposte personalizzate e flessibili.

Il par. 5.3.3 afferma testualmente che «i sostegni e le misure previste dalle programmazioni – Fondo Non Autosufficienza, Fondo caregiver, Fondo “Dopo di Noi”, Fondo Inclusione Disabilità, politiche per l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità sensoriale e interventi a supporto dell’inclusione sociale di giovani adulti con disabilità – devono necessariamente essere integrate con l’insieme degli interventi sanitari, sociosanitari e sociali, affinché risorse e strumenti siano orientati a sostenere ed attuare il Progetto Individuale nei diversi cicli di vita. Il tema della disabilità richiede quindi un approccio trasversale atto a promuovere l’integrazione delle politiche e la ricomposizione delle risorse, al fine di superare la frammentarietà delle competenze e delle risorse attuali all’interno di una programmazione complessiva». 

Si stanno “accorciando le distanze” tra le parole delle disposizioni normative e le attese delle persone con disabilità e di molti genitori che lottano per costruire nuove opportunità di vita attraverso i servizi ed i sostegni esistenti, ma anche attraverso progettazioni innovative che possono cambiare il nostro welfare

Mai come oggi appare evidente quanto si stiano “accorciando le distanze” tra le parole delle disposizioni normative e le attese delle persone con disabilità e di molti genitori che lottano quotidianamente per costruire nuove opportunità di vita attraverso i servizi ed i sostegni esistenti. Ma anche attraverso progettazioni innovative che possono migliorare e cambiare il nostro sistema di welfare per renderlo sempre più a misura di tutti. 

Elisabetta Amiotti, membro del Consiglio Direttivo di Anffas Lombardia e presidente della cooperativa sociale Come Noi a marchio Anffas. In apertura, foto AP Photo/Andreea Alexandru

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