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Milano, 7 gennaio 2024 – Trentotto anni. Una vita, in un mondo che macina avvenimenti alla velocità di una Formula 1. Eppure l’omicidio di Lidia Macchi resta una ferita ancora aperta. Per la famiglia, per gli amici e per tutta la comunità di Varese.
Ancora alla ricerca di una giustizia che, con il passare degli anni, ha sempre più il sapore di un’aspirazione utopica. A meno che, se c’è qualcuno che custodisce un qualche tremendo segreto nel cuore, si decida a liberarsi di un peso. O, comunque, di dare un contributo sostanziale a una verità sempre sfuggita, quasi negata.
La scoperta
Il cadavere di Lidia, studentessa ventunenne di Comunione e Liberazione fu scoperto il 7 gennaio 1987 in una zona isolata fra i boschi di Cittiglio, il Sass Pinì. Il suo corpo è riverso a fianco della Panda con la quale aveva lasciato la casa di famiglia nel rione di Casbeno due giorni prima, il 5 gennaio, per andare a trovare un’amica ricoverata in ospedale.
La località Sass Pinì nel 1987, dopo il ritrovamento del cadavere della ragazza
L’auto ha i fari in posizione di accensione, ma il quadro è spento. Sul cadavere, coperto alla bell’e meglio con un cartone, il medico legale conterà la traccia di 29 coltellate. Ma com’è arrivata lì Lidia, in una zona all’epoca nota perché frequentata dai tossicodipendenti? Vi è stata portata, magari perché costretta con la forza, oppure ha raggiunto quel sentiero malridotto da sola, perché aveva un appuntamento con qualcuno? Oppure è stata portata nei boschi che già era morta?
E chi si è accanito con tanta violenza sul suo corpo? E, infine, chi poteva volere morta una ragazza studiosa e religiosa, ma non per questo curiosa della vita e ben voluta da tanti amici?
La scomparsa
Riavvolgiamo il nastro di due giorni. Lidia Macchi esce di casa la sera del 5 gennaio, per recarsi in visita da un’amica, ricoverata in ospedale a Cittiglio. Ai familiari promette che farà ritorno per cena. Saranno le sue ultime parole pronunciate nell’abitazione di Casbeno. Alle undici di sera scatta il primo allarme. Papà Giorgio e mamma Paola, ormai, sono passati dall’ansia alla preoccupazione.
Iniziano ad attivarsi le ricerche da parte delle forze dell’ordine. Si viene a sapere dall’amica in ospedale a Cittiglio che Lidia è uscita verso le 20.20. Alle 22 una donna, di ritorno da una cena con i parenti da Caravate, un paese poco lontano, scorge la vettura della giovane studentessa ferma su una strada sterrata. Ha i fari accesi. Impossibile sapere chi sia a bordo. E se Lidia, a quell’ora, sia ancora viva.
Il giorno dopo, l’Epifania, viene formalizzata la denuncia. Scatta, in contemporanea con le operazioni di polizia, quella che allora viene classificata come solidarietà interna a Comunione e Liberazione. Amici e militanti del movimento, all’epoca molto radicato a Varese e in provincia, si mettono alla ricerca di Lidia, che in molti conoscevano e stimavano. Sono tre di loro ad avvistare l’auto, la mattina del 7 gennaio, e il corpo disteso a fianco. Vengono avvisate le forze dell’ordine. Lidia Macchi non è più una persona scomparsa. È la vittima della furia di uno sconosciuto. Che è rimasto tale fino a oggi.
L’inchiesta
Le indagini, a questo punto, mutano di orizzonte. In procura viene aperto un fascicolo a carico di ignoti per omicidio volontario. La pressione sugli investigatori, fin dall’inizio, è fortissima. Per la brutalità dell’assassinio, per la giovane età e la siderale distanza da qualsiasi contesto “opaco” della vittima. Ma anche per la sua appartenenza al movimento di Comunione e Liberazione.
Giorgio Paolillo, primo dirigente della squadra mobile di Varese all’epoca dei fatti, in un’intervista rilasciata a Gabriele Moroni per il nostro giornale, racconterà che polizia e carabinieri si dividono, per così dire, i compiti. I carabinieri seguono la pista del maniaco, sapendo di alcune segnalazioni su un uomo sospetto nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio. La polizia si concentra sulla cerchia dei conoscenti di Lidia. “Ci trovammo di fronte a un muro”, chiarisce Paolillo nell’intervista. Nessun depistaggio, va detto, piuttosto un’assoluta chiusura.
Due giorni dopo a casa di Lidia arriva una lettera, in busta chiusa. Dentro, con una calligrafia quasi da scuola elementare, c’è una specie di poesia, dal titolo “In morte di un’amica”. Il tono è misticheggiante, il contenuto denso di riferimenti biblici ma anche sessuali. L’ha scritta l’assassino? Oppure qualcuno che sa chi è l’omicida? Nel 2019, nel corso di un’udienza del processo a Stefano Binda; arrestato, condannato in primo grado e poi definitivamente assolto dall’accusa di aver ucciso Lidia, un avvocato, Piergiorgio Vittorini, svela che un suo cliente gli ha confessato di aver scritto la lettera. E nello stesso tempo gli ha giurato di non sapere nulla dell’assassinio. Anzi, di non conoscere nemmeno Lidia Macchi, con la quale condivideva soltanto l’adesione a Comunione e Liberazione. E allora perché inviare quella missiva ai genitori, diventata per decenni un mistero nel mistero? “L’aveva scritta – chiosa l’avvocato – perché riteneva che fosse la maniera più corretta per manifestare il suo cordoglio ai familiari”. Parole pronunciate in udienza, dietro giuramento, da un avvocato, e quindi degnissime di credito.
Paola Bettoni, la madre di Lidia, con la figlia Stefania, sorella della studentessa morta nel gennaio 1987
Nel frattempo le indagini fanno qualche faticosissimo passo in avanti. La pista legata alle conoscenza di Lidia prende corpo. Si punta, in particolare, su un sacerdote, don Antonio Costabile, all’epoca assistente degli scout. Viene interrogato. E indagato. Lo resterà – formalmente – fino al luglio 2014, quando viene prosciolto da ogni addebito. Per ventisette anni ha dovuto convivere con addosso il sospetto di essere l’assassino di Lidia Macchi. Ad annunciargli la “liberazione” una telefonata della procura di Milano.
La svolta
Poi, il nulla. Qualche bagliore di pista che si riaccende. L’eterno lutto della famiglia Macchi. Gli articoli della stampa locale che tengono vivo il ricordo dell’indagine. D’improvviso un altro terribile omicidio riporta l’attenzione sul caso. Le figlie di Giuseppe Piccolomo, il killer delle mani mozzate, condannato in via definitiva per l’omicidio di una pensionata di Cocquio Trevisago alla quale l’assassino amputò gli arti superiori, raccontano alla procuratrice generale di Milano Carmen Manfredda, che il padre le minacciava affermando che “avrebbe fatto fare loro la fine di Lidia Macchi”. Piccolomo viene indagato. Le sue si riveleranno solo le spacconate di un uomo violento e fuori controllo.
La vera svolta arriva il 16 gennaio del 2016. Nella sua abitazione di Brebbia viene arrestato Stefano Binda, disoccupato con laurea in Filosofia. Conosceva Lidia Macchi. E gravitava nel gruppo varesino di Comunione e Liberazione. Le accuse sono pesantissime. Per gli investigatori Binda avrebbe abusato della studentessa e poi l’avrebbe uccisa per “punirla” dell’atto impuro. Secondo gli inquirenti Binda, che vive con la madre, è nato un anno dopo la vittima ed è descritto come persona coltissima, ha anche scritto la poesia “In morte di un’amica”. Lui si difende fin dal giorno dell’arresto: “Non c’entro nulla, sono tranquillo”.
Stefano Binda, 55 anni, definitivamente assolto per il delitto di Lidia Macchi
A chi lo interroga fornisce anche un alibi. “Non c’ero. Ero in vacanza a Pragelato, in montagna, con il gruppo di Gioventù Studentesca”. Gli investigatori non gli credono.
Il processo
Stefano Binda va a processo. Le accuse – secondo il gip chiamato a valutare la richiesta di rinvio a giudizio – reggono e meritano di passare al vaglio del dibattimento. La Corte d’Assise di Varese lo condanna all’ergastolo. Nel luglio del 2019, in Appello, a Milano, la sentenza viene ribaltata. L’ex studente di Filosofia viene assolto con formula piena. Il verdetto viene confermato in Cassazione.
A Binda restano l’enorme peso della detenzione preventiva e la battaglia per ottenere un risarcimento dallo Stato (gli viene riconosciuto e successivamente ridotto di un terzo). Ai familiari di Lidia – papà Giorgio è scomparso nel 2016, senza vedere gli ultimi sviluppi del caso – la dannazione del ricordo senza giustizia. Lidia, oggi, avrebbe quasi 60 anni.
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