Siamo su un sentiero di sviluppo insostenibile. Il 9° Rapporto ASviS offre una fotografia del Paese, con uno sguardo all’Europa e al mondo, avanzando proposte per un cambio di rotta radicale.
Sintesi del rapporto
— tratto dall’intervento dell’ex ministro Enrico Giovannini, professore ordinario di Statistica economica e Sviluppo sostenibile all’Università di Roma “Tor Vergata”, co-fondatore e direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS), una rete di oltre 300 soggetti della società civile creata per attuare in Italia l’Agenda 2030 dell’Onu —
Per chi si occupa seriamente di sviluppo sostenibile l’attuale stato del mondo non è una sorpresa. Il fatto di confrontarsi “con crescenti rischi catastrofici ed esistenziali, molti causati dalle scelte che facciamo”, come si legge nelle prime righe del Patto sul Futuro firmato il 22 settembre alle Nazioni Unite, non è una novità per chi, come l’ASviS, analizza i dati esistenti, i rapporti degli scienziati, le conclusioni degli esperti di economia, società e politica. Quello che osserviamo intorno a noi illustra in modo plastico e drammatico quello che è il “cuore” del messaggio contenuto nell’Agenda 2030: l’alternativa a un mondo sostenibile è un mondo insostenibile. Come l’attuale. E non solo da un punto di vista ambientale, ma anche da quello economico, sociale e istituzionale.
Chi pensa che la sostenibilità sia “solo” una questione che investe tematiche energetiche o climatiche, risolvibili con singoli interventi nei processi produttivi o nelle politiche pubbliche, magari sbandierati come trasformazioni epocali all’insegna del green-washing e del social-washing, dovrebbe
finalmente comprendere che la costruzione di uno sviluppo sostenibile è molto più di questo e che ogni rinvio delle azioni che vanno nella giusta direzione aumenta i rischi di insostenibilità dell’intero sistema e i costi della transizione ad un nuovo assetto. Al contrario, come abbiamo mostrato nel nostro “Rapporto di primavera” di quest’anno sulla base di dati e modelli accurati, accelerare la transizione all’insegna dell’innovazione aumenta il reddito e l’occupazione. Quindi conviene, anche dal punto di vista economico.
Ovviamente, non è una singola persona, una singola impresa, un singolo governo che può risolvere i problemi che abbiamo davanti. Ma il riconoscimento che solo un’azione globale e coordinata può veramente cambiare la situazione non può diventare la scusa per ridurre l’impegno per il cambiamento, qui e ora. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha in più occasioni, specialmente quest’anno, detto con chiarezza che l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile “non è un esercizio burocratico per sognatori” e che è urgente intervenire per fronteggiare la crisi climatica e realizzare la transizione ecologica, ridurre le disuguaglianze, combattere le ingiustizie, operare per favorire la cooperazione internazionale e impegnarsi per migliorare la condizione delle giovani generazioni, costruendo al contempo un futuro migliore per quelle che verranno, all’interno della prospettiva dell’Unione europea, che ha definito un’opportunità unica, ancorché ancora incompiuta.
Qui il link al documento completo
Il futuro dell’Italia. Previsioni al 2030 e individuazione di 4 game changer
Con il ritmo attuale, solo il 17% dei Target globali monitorati verrà raggiunto entro il 2030, mentre non si registrano progressi, o si osservano addirittura peggioramenti, per almeno un terzo dei Target.
Viviamo in una fase storica caratterizzata da ciò che gli studiosi hanno definito “policrisi”, cioè l’intersezione di vecchie e nuove crisi che minano il progresso e la stessa sopravvivenza del genere umano. Parallelamente, cresce la “domanda di sviluppo sostenibile” in tutto il mondo. Secondo alcune recenti indagini d’opinione, oltre che le preoccupazioni per l’inflazione e il cambiamento climatico, le persone esprimono una chiara consapevolezza della necessità di agire con urgenza per affrontare le sfide del nostro tempo, ma anche una forte sfiducia nei confronti dei governi nazionali, con significative differenze tra i Paesi ad alto reddito e quelli a medio e basso reddito: ad esempio, questi ultimi sono in generale più ottimisti circa il proprio futuro, mentre Stati Uniti, Paesi europei e Giappone sono più pessimisti.
Otto persone su dieci tra quelle intervistate in 77 Paesi chiedono più protezione da eventi climatici estremi e un’azione più decisa nel proprio Paese in materia. Il 68% degli intervistati nei Paesi G20 sostiene la proposta di un aumento delle tasse per ricchi e super-ricchi come strumento per trasformare l’economia e promuovere benessere diffuso, il 71% si aspetta dai governi un’azione significativa per ridurre le emissioni di carbonio e rallentare il riscaldamento globale, il 75% chiede una sanità pubblica, gratuita o accessibile, il 74% il rafforzamento dei diritti dei lavoratori e il 76% crede che ci sia troppa diseguaglianza economica.
D’altra parte, la fiducia nei governi è bassa: solo il 39% ritiene che il proprio governo prenda decisioni che beneficiano la maggioranza della popolazione e il 37% non crede che il governo sia in grado di prendere decisioni di lungo-termine che beneficeranno la maggioranza della popolazione in 20-30 anni. Per questo, il 65% crede che il sistema politico e quello economico richieda cambiamenti significativi, ma benché l’81% consideri la democrazia come il migliore sistema politico possibile, il 40% dichiara di apprezzare leader che non hanno bisogno del Parlamento per decidere.
In breve, fatti e aspirazioni divergono in misura netta.
Il futuro dell’Unione europea: maggiore integrazione all’insegna dello sviluppo sostenibile o ritorno al passato?
Posti uguali a 100 i valori del 2010 degli indici compositi calcolati dall’Alleanza, dopo 12 anni si registra una crescita vicina ai 10 punti per un solo Goal (disuguaglianze di genere), un aumento compreso tra 5 e 7 punti per tre (energia pulita, lavoro e crescita economica, innovazione), uno inferiore a cinque punti per dieci Goal, mentre per due (ecosistemi terrestri e partnership) si rileva addirittura un peggioramento. Inoltre, la disuguaglianza tra i vari Paesi appare stabile eccetto che per tre Goal (6, 11 e 13) per i quali si nota una sua significativa riduzione. Infine, per quanto riguarda la possibilità di conseguire, entro il 2030, 17 obiettivi quantitativi definiti ufficialmente dall’UE e misurabili attraverso indicatori statistici,10 sono raggiungibili, cinque non sono raggiungibili e per due il giudizio resta sospeso.
Quattro possibili game changer per l’Italia
La legge sull’autonomia differenziata presenta numerosi problemi che possono determinare crescenti disuguaglianze tra territori, nonché seri rischi per la sostenibilità dei conti pubblici e per il coordinamento delle politiche necessarie per conseguire gli SDGs. Di conseguenza, è auspicabile che le norme
vengano modificate, riducendo le aree di sovrapposizione tra competenze dello Stato e delle regioni e riconducendo le materie con esternalità o economie di scala/scopo di rilevanza nazionale (infrastrutture, energia, ecc.) all’esclusiva potestà legislativa dello Stato.
L’applicazione delle Direttive europee sulla rendicontazione di sostenibilità delle imprese, il loro dovere di diligenza sui temi sociali e ambientali, e il divieto di greenwashing potrebbero consentire al nostro sistema produttivo di fare un salto di qualità, anche in termini competitivi, cui ovviamente sono
anche connessi significativi costi, molti dei quali sono in realtà investimenti (ad esempio, quelli per la sicurezza dei lavoratori e la riduzione delle emissioni di inquinanti). Comportando una maggiore trasparenza delle pratiche di produzione, trasformazione e distribuzione, le Direttive tutelano anche il consumatore. Il recepimento delle Direttive va però accompagnato con iniziative formative e di accompagnamento (come gli incentivi fiscali del programma “Industria 5.0”) che inducano le imprese a utilizzarle come occasione di ripensamento del proprio modello di attività, e non solo come un adempimento burocratico.
Il regolamento europeo sul ripristino della natura segna un deciso cambio di passo nelle politiche ambientali europee. Il carattere vincolante dell’obiettivo di ripristino degli ecosistemi è estremamente significativo e giustamente ambizioso, ma spetta agli Stati membri di decidere come procedere definendo, entro il primo settembre 2026, il proprio “Piano nazionale di ripristino”. Si tratta di una grande opportunità, anche per creare occupazione di qualità, non solo per il miglioramento ambientale nelle aree extraurbane, ma anche in quelle urbane, visto che il Regolamento prevede lo stop immediato al consumo di suolo netto in alcune parti significative del territorio nazionale, che stimiamo in circa il 36% dei comuni italiani, cioè i più urbanizzati che contengono la stragrande maggioranza della popolazione nazionale. Per questo, il Piano di ripristino va preparato il prima possibile, anche prima del 2026, coinvolgendo la comunità scientifica e rappresentanti della società civile.
La modifica della Costituzione avvenuta nel 2022, una delle proposte dell’ASviS fin dalla sua nascita, introduce tra i compiti della Repubblica quello di tutelare l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità anche nell’interesse delle future generazioni, e stabilisce che l’attività economica non può svolgersi a danno della salute e dell’ambiente. La portata trasformativa della modifica è emersa chiaramente con la sentenza n. 105/2024 della Corte costituzionale pubblicata il 13 giugno scorso e relativa al “Decreto Priolo” del 2023 del Governo (dichiarato incostituzionale), che apre a scenari innovativi nelle scelte pubbliche e private, in quanto la Corte stabilisce che la tutela dell’ambiente e della salute è un “valore assoluto”, con il quale le esigenze economiche devono essere rese compatibili, nel caso di specie attraverso la riconversione degli impianti di produzione entro tre anni.
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