La felice e incosciente schiavitù imposta dalla dittatura dei like

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Occupatissimi a curare relazioni deboli con “amici” digitali e follower, non siamo stati mai tanto soli, abbuffandoci di serie televisive e di video di gattini in rete. Il post di Alfredo Ferrante, dirigente ministeriale, tratto dal suo blog tantopremesso.it

 

Nell’edizione del 29 dicembre de “La Lettura” del Corriere della Sera, un breve intervento di Paolo Benanti ha voluto richiamare l’attenzione sugli aspetti ancora troppo sottovalutati dei social network e del loro impatto sul concreto funzionamento dei sistemi democratici contemporanei, nei quali gli individui sono forzati (e apparentemente felici) creatori di contenuti: “La facilità di comunicazione e la disintermediazione dei social media – scrive Benanti – hanno creato nuove sfide, come la diffusione di disinformazione e fake news, e l’uso di tattiche di manipolazione cambiando il modo di fare politica, amplificando la velocità e la portata con cui le opinioni possono essere condivise portando a una dittatura della trasparenza, in cui gli individui sono costantemente monitorati e spinti a conformarsi“.

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È il paradosso dell’apparente libertà della contemporaneità digitale, che più volte ha denunciato il filosofo Byung-Chul Han, secondo cui “mentre pensiamo di essere liberi, oggi siamo intrappolati in una caverna digitale. Siamo incatenati allo schermo digitale […] intrappolati nelle informazioni” (“Infocrazia”, Einaudi 2023): alla narrazione, alla lentezza e all’approfondimento del mondo che ci circonda succede sostanzialmente incontrastato il dominio delle informazioni, la cui natura frammentata e il cui rumore continuo e caotico non fanno che riempire l’angoscioso timore del vuoto di molti. Difficile spiegare altrimenti la diffusione impetuosa e inarrestabile dello smartphone, strumento elettronico la cui originaria funzione di effettuare telefonate è ormai assolutamente marginale e che è divenuta una cyberappendice del corpo umano: 7 persone su 10 utilizzano oggi un telefono cellulare “smart”, mentre sono attualmente in funzione più di 7 miliardi di smartphone. Ove solo si aggiunga a questa cifra il numero di telefoni cellulari di ultima generazione usati e gettati (o conservati) degli ultimi 10 anni, è facile, peraltro, rendersi conto dell’impatto sulla vita degli individui e quello, spaventoso, che investe l’ambiente. Inoltre, passando all’Italia, secondo i dati ISTAT ben il 55,8% degli adulti utilizza i social network, mentre la percentuale sale all’80,7% fra i giovani. Numeri in crescita costante.

Tralasciando, in questa sede, gli effetti potenzialmente negativi dell’utilizzo massiccio e senza mediazioni dei social sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi, di cui parla ampiamente Jonathan Haidt nel suo “La generazione ansiosa” (Rizzoli 2024), e su cui il dibattito a livello internazionale è sempre più acceso, preoccupa come l’invasività dei social media possa influenzare il proseguire della postmodernità e l’intera dimensione relazionale degli esseri umani. Non sembri un timore esagerato: le trasformazioni del vivere quotidiano intervenute in pochissimi anni sono strabilianti e decisamente preoccupanti. Basta viaggiare su un vagone della metropolitana o leggere un qualsiasi quotidiano per rendersi contro di come l’attenzione dell’homo digitalis sia merce preziosa e combattuta all’ultimo sangue da parte delle grandi piattaforme, potenze transnazionali che riescono senza troppi sforzi, complici folle di volenterosi prosumer (consumatori e produttori di contenuti, allo stesso tempo), a influenzare in profondità e in maniera sempre maggiore ogni aspetto della vita delle persone.

Non siamo all’ora zero, naturalmente: ma siamo in tempo per far sì che le tecnologie siano a misura d’uomo e che non si ceda, in assenza di un adeguato sforzo interpretativo della realtà, alle facili lusinghe della dopamina dei like, che seducono senza imporre. In un regime di ferreo e onnipresente oligopolio della rete, siamo costantemente indaffarati a creare contenuti digitali senza futuro e senza profondità su Instagram e TikTok, la cui durata è effimera come quella di una farfalla. Occupatissimi a curare relazioni deboli con “amici” digitali e follower, non siamo stati mai tanto soli, abbuffandoci di serie televisive e di video di gattini in rete. Come ricorda Vanni Codeluppi, siamo di fronte al trionfo del “culto del banale” (“La morte della cultura di massa”, Carocci 2024): le conseguenze, purtroppo, minacciano di essere tutt’altro che banali e il rischio è che si sia troppo indaffarati a scattare selfie per rendersene conto.

(Estratto dal blog tantopremesso.it)



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