Giacomo Manzoni è oggi uno dei baluardi della espressione musicale come presenza sociale e politica. Nella sua vita creare musica è stato una sorta di manifesto. Sempre molto attento alla realtà, Manzoni ha volto il suo sguardo sui molteplici aspetti della complicata situazione italiana. E non si è mai tirato indietro dal denunciare. Oggi ha raggiunto l’età cosiddetta dei saggi, ma probabilmente in lui la saggezza è sempre stata sintomatica di progresso e di innovazione. Nella sua opera è sempre possibile comprendere il suo pensiero, libero e anarchico, formalmente riferito alla scuola post viennese, la sua musica è comunicativa, ha sempre quella dimensione di approccio didattico. Questa intervista è stata realizzata a Spoleto nel 2023 quando il Centro Sperimentale Belli ha proposto due opere scritte dal compositore. In occasione dei novant’anni dalla nascita le due opere allestite sono state La legge e Gli occhi di Ipazia.
A lui è legata una generazioni di compositori e attualmente rimane fra gli intellettuali più lucidi di una importante stagione della crescita musicale. Non solo, la sua creatività continua a lasciarci tracce ed è tutto riscontrabile nel bel documentario di Francesco Leprino Manzoni 90.
Maestro Manzoni siamo curiosi di sapere come è stato crescere in una famiglia dove aveva uno zio come lo scrittore satirico Carletto Manzoni detto «Fildiferro».
Mio zio faceva parte di un contesto lontanissimo dal mio, era vicino a Guareschi. Mi piaceva molto un suo personaggio il Signor Veneranda. Nella mia parte di vita iniziale ci siamo visti spesso, abitavamo in Sicilia e vivevamo vicini. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state caratterizzate da diversi spostamenti della famiglia. Infatti sono stato in Sicilia perché a mio padre, che prima lavorava a Milano come amministrativo, nel 1930 fu proposto di andare a lavorare presso la Sanderson a Messina, una ditta di agrumi. Mio padre era irrequieto, era stato prima a Venezia dove avevo iniziato a frequentare la scuola, poi andò a Roma e noi lo seguimmo. Ma la guerra incombeva e quindi ci trasferimmo sul lago Maggiore. Mio zio in qualche modo ci seguiva e così prese casa anche lui vicino a noi. Ci vedevamo spesso, era una persona incredibile ma per motivi politici ci allontanammo, soprattutto quando io scrivevo per l’Unità.
Quindi ha avuto ben presto una vita fatta di spostamenti, ma come si è avvicinato allo studio della musica?
Casualmente, non ricordo se fu mio padre o degli amici di famiglia a regalarmi una fisarmonica; quello strumento mi incuriosiva molto e così iniziai a suonarlo. Nella mia famiglia non c’erano interessi musicali, tranne per mio padre che da buon italiano fascista, ascoltava Wagner.
Lei lo ama Wagner?
Il Ring moltissimo, anche il Tristano e Isotta; Parsifal mi piace ma non è il massimo per me. Certo con Il crepuscolo degli dei fece grandi cose.
Secondo lei cosa fu che colpì tanto Verdi della musica di Wagner?
Certamente l’uso che egli fece dell’«accordo di Tristano» (un accordo formato dalle note fa, si, re# e sol#, ndr) nell’Otello.
Ritorniamo alla sua formazione, cosa ricorda di quegli anni?
La curiosità per la fisarmonica si esaurì perché il timbro non corrispondeva a un mio piacere. Ricordo che incontrai a Messina un docente in una piccola scuola di musica che insegnava le materie complementari. Dirigeva anche un coro e mi fece conoscere la musica del Quattrocento. Era anche compositore fedele alla Scuola di Vienna, usava la dodecafonia. Iniziai così.
La sua scrittura musicale nel corso degli anni non si è distanziata dall’idea della dodecafonia.
Ovviamente rimango in quella linea ma c’è una libertà che è molto importante. Poi nel tempo tante cose sono cambiate ma certo non mi distacco da quei modelli.
Per lei è importante il suono?
Da sempre sono stato affascinato dall’idea di suono, anche perché la musica astratta non mi interessa.
Oggi è importante l’effetto sonoro?
È quello che conta nella musica. Casi come l’Offerta o l’Arte della fuga sono opere scritte con una prospettiva più mentale che reale, così come succede con la musica dei fiamminghi. A me non è mai interessato scrivere così. La musica poi va ascoltata ed eseguita. Il giudizio lo dà chi ascolta.
Schoenberg fu veramente un rivoluzionario?
Distrusse definitivamente la musica tonale. L a dodecafonia nacque nel 1920, fino a quel momento prevaleva la scrittura tonale, la concezione tonale è naturalmente molto allargata come succede nei brani di Richard Strauss. C’era un bisogno di uscire da una gabbia storica, era nell’aria il cambiamento. Ognuno poi lo faceva a suo modo. Il Bartók giovanile già si era direzionato. Ma Schoenberg scriveva già in atonalità. C’era questo bisogno di uscire con la sua serie. A lungo la usò in maniera molto rigorosa. Poi lo stesso Schoenberg riteneva che fosse molto importante conoscere bene la tradizione. Per quanto mi riguarda sono sempre partito dalla musica più libera, ho sempre cercato di aprire strade nuove compositive.
Lei ha insegnato in diversi conservatori, in particolare a Bologna e a Milano. Come lavorava con i suoi allievi?
Ho insegnato una trentina d’anni. Lavoravamo molto sull’analisi, partivo dalla base dell’analisi e ci concentravamo anche, e molto, sulla musica antica perché la conoscenza delle forme, dell’armonia di quel tempo è importante. Poi attraverso l’analisi delle composizioni contemporanee di autori come Schoenberg o Stockhausen, cercavamo una strada da percorrere. Cercando di capire come faceva Berg, come risolveva Bartók, attraverso queste analisi pian piano cercavamo di buttare fuori quello che loro sentivano. Questa era la concezione e ha funzionato.
I suoi allievi come si comportavano?
Producevano del materiale, me lo facevano vedere, analizzavamo e poi facevamo il punto della situazione.
Quanti anni aveva quando ha scritto «La legge»?
Credo 22 o 23. Mi chiesero di poterla rappresentare, ero molto coinvolto politicamente, avevo una chiara posizione politica e mi interessavano le lotte contadine, il meridione maltrattato, i diritti dei lavoratori.
Era iscritto al Pci?
Sono stato iscritto al Pci da subito, per 30 anni. Mi sembrava un partito più radicale rispetto anche alla subalternità americana, il comunismo italiano poteva essere un’idea che poteva portare oltre certe dimensione. Berlinguer aveva aperto nuovi spazi. Ma l’America è stata forte e la Fiat ha fatto i suoi giochi.
Cosa troviamo ne «Gli occhi di Ipazia»?
In questo lavoro c’è la persecuzione, lo spezzare gli ideali e le scoperte che contrastano con gli interessi. Il mondo islamico è talmente attuale e assieme a Sonia Arienta abbiamo provato a denunciare. Ma è difficile scrivere oggi dove le cose sono tanto mutate.
LA BIOGRAFIA
Giacomo Manzoni è nato a Milano il 26 settembre 1932. Nipote dello scrittore e umorista Carletto Manzoni, inizia a studiare presso il Conservatorio di Messina con Gino Contilli per poi passare a quello di Milano dove avrà come maestro un grande compositore come Orazio Fiume. Partecipa attivamente alla vita sociale e politica. È in stretto contatto con Luigi Nono, Bruno Maderna, Aldo Clementi e altri artisti. Lavorerà per una azione sociale della musica. Iscritto per molti anni al Pci, ha insegnato per lungo tempo presso il Conservatorio di Milano. Molteplici le sue attività come quelle di musicologo e di critico musicale. Le sue composizioni, tra cui si possono citare La legge e Gli occhi di Ipazia, sono state eseguite in tutto il mondo.
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