Droghe, tv e odio sui migranti, la Russia sembra l’occidente

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Mefedrone è il nome di una sostanza che dice poco in Italia. Non in Russia però, dove i media parlano ormai di epidemia. Essendo un farmaco, il parallelo più semplice è con il fentanyl, la droga che sta devastando gli Stati Uniti, con tanto di strade dove bivaccano persone trasformate in zombie. Ma il mefedrone non è esattamente la stessa cosa. È una polvere biancastra o giallastra simile al sale. Procura euforia, buonumore, niente crisi di astinenza, alta dipendenza psicologica. Sta al fentanyl come l’eroina sta alla cocaina: è una droga che dà l’illusione di rimanere padroni di sé stessi, che può essere apparentemente compatibile con una vita lavorativa normale.

Tachicardia, picchi pressori, attacchi di aggressività, rischio di ictus e infarto fanno parte del pacchetto. Non si dorme mai. La chiamano droga dell’avidità perché il naso si ostruisce in fretta e gli intervalli tra le dosi si accorciano (l’effetto decresce). Con un costo alla produzione di un euro, è spinta sul mercato a un prezzo non economico né costoso: circa 25 euro al grammo.

Vie principali di spaccio: Telegram e il dark web, dove surclassa tutte le altre droghe, dai cannabinoidi alla cocaina, all’ecstasy, alle anfetamine. Solo a Mosca, nel 2023 i casi di procedimento penale che avevano a che vedere con il mefedrone sono stati 1.940. Molti riguardano i piccoli laboratori che sorgono ovunque per “cucinare” il narcotico.

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Risposta alle psicosi

Al mefedrone stanno dedicando articoli e inchieste diversi media russi. Lo fanno a modo loro. Perché sebbene il problema esista e sia quasi impossibile tacerlo, lo si racconta con le forme di autocensura che richiede il Cremlino. Meglio non dire quanto costa (sarebbe pubblicità), gradito segnalare come “agenti stranieri” gli artistoidi da strada che lo esaltano nelle loro canzoni, molto apprezzato accodarsi alla narrazione legalitaria che le droghe siano tutte uguali e facciano male allo stesso modo.

Il mefedrone è la risposta russa alle psicosi delle metropoli contemporanee. I meccanismi per i quali una classe d’età che va dai 15 ai 60 anni ci finisce dentro sono gli stessi per i quali in Occidente si consuma cocaina. Perché il contesto è lo stesso. È così che il racconto ufficiale di una Russia che si aggrappa alle tradizioni – dove i pope danno la benedizione ai soldati in partenza nelle stazioni, dove la Duma si occupa di legiferare contro il turpiloquio, la “propaganda” dell’omosessualità o la “propaganda” della vita da single – si sfracella contro il muro dei fatti.

La famigerata “Russia di Putin” non regge quasi mai alla prova del quotidiano. In moltissimi ambiti, la sua vita sociale è largamente sovrapponibile a quella occidentale, con gli stessi programmi tv demenziali, lo stesso nichilismo giovanile, la stessa selva di trapper e rapper in carta da parati, la stessa ricerca dell’effimero, del ritocchino, del marchio lussuoso in bella vista (meglio se italiano o francese). Solo che nessuno ne dà conto.

Fenomeni migratori 

«La Russia ai russi» declamavano a inizio Novecento i membri dell’Unione del popolo russo, idealizzatori di una Russia preesistente sia al mondo borghese che all’occidentalizzazione di Pietro il Grande: qualcosa di non distante dall’impero al quale il Cremlino guarda con nostalgia. L’Unione mise in piedi le famose “Centurie nere”, squadracce responsabili, nell’ottobre del 1905, di vari pogrom (più di 1.500 persone uccise, la metà di religione ebraica).

Oggi in Russia non esistono più le Centurie nere, ma nel linguaggio volgare e popolare esistono i “culi neri”, quelli degli immigrati kirghisi, tagiki, uzbeki, turkmeni, caucasici, uomini e donne che si danno da fare nei mercati popolari, nelle piccole rivendite di periferia, nelle industrie, nella logistica, nei magazzini all’ingrosso, nei servizi. E che a volte possono finire coinvolti in episodi di micro criminalità urbana.

Stante la drammatica crisi demografica, anche quella facilmente sovrapponibile alla nostra, è difficile immaginare una Russia che possa fare a meno di una forza lavoro così estesa e determinate. Persino il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha ultimamente dichiarato che «I migranti sono una necessità, il fatto è che abbiamo una situazione demografica molto tesa. Viviamo nel paese più grande del mondo ma siamo pochi».

Pochi a tal punto che persino adolescenti e pensionati spesso vengono assunti per far fronte alle necessità crescenti del settore bellico e di quelli ad esso legati. Il ministero del Lavoro russo ha calcolato che, per sostenere l’economia del paese, da qui al 2030 serviranno almeno due milioni e mezzo di immigrati.

E di questo cosa pensa la politica, la maggioranza parlamentare? L’esatto contrario. Il presidente del Partito Liberal Democratico russo, Vladimir Sluckij, durante un recente incontro con Putin, ha dichiarato di esser portatore «di un’iniziativa sostenuta anche dal partito della maggioranza parlamentare, Russia Unita, e da altri colleghi: vietare ai migranti di bassa manovalanza di portare con loro le loro numerose famiglie».

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Il presidente della Duma Volodin ha lanciato un sondaggio sul suo canale Telegram: propone di vietare la scuola ai figli di immigrati che non sanno il russo (27mila persone hanno partecipato e nel 95 per cento dei casi hanno risposto “sì”). Nel frattempo, una ventina di regioni russe (Lipeck, Irkutsk, Astrachan, Novosibirsk, Tula, Kaluga, Kamčatka, eccetera) hanno vietato agli immigrati di fare il lavoro di tassista.

Le conseguenze del Crocus

Questo clima di anti immigrazionismo si è acuito soprattutto dopo l’attentato dello scorso marzo al Crocus City Hall, il centro commerciale della regione di Mosca: 145 morti e dei 551 feriti. In quel caso, il dito venne subito puntato sull’Ucraina, ma a farne le spese è stata soprattutto la comunità tagika, dalla quale venivano i responsabili della strage. Da allora, i permessi di soggiorno sono drasticamente diminuiti e nel paese c’è un’aria decisamente ostile verso coloro che vengono da fuori e vivono ai margini della società.

Anche in questo caso, lo schema è ampiamente sovrapponibile al nostro: da una parte, i forzati e sporadici richiami al realismo dalle cariche apicali del governo; dall’altra, la persistente demagogia del parlamento, delle amministrazioni locali e dei media.

Quanto a Putin, il più delle volte vorrebbe accarezzare gli umori popolari ma sembra volerne uscire declassando la faccenda a un fatto culturale. Il problema sarebbe una scarsa competenza del russo, ostacolo fondamentale a una vera assimilazione. Nell’orizzonte ideale del presidente, la Russia dovrebbe aprire le porte solo a coloro che sono integrabili. Facile a dirlo, un po’ meno a realizzarlo.

Nessun eccezionalismo 

Insomma, in qualunque direzione si guardi, è difficile dare per buono l’eccezionalismo russo, sia quello dei cantori che quello dei detrattori. Se si va ancora più a fondo e, oltre all’uso delle droghe e all’immigrazione, si guarda alle questioni del lavoro, dell’ambiente, delle infrastrutture, dell’educazione, della sanità e di molto altro, ne emerge il ritratto di un paese la cui la vita materiale va avanti in base alle stesse miserie e alle stesse conquiste dei tempi che corrono.

La Russia sconta un racconto di sé falsato dalle ambizioni delle sue élite e da un interesse esterno troppo spesso derivante da miti letterari o storico-politici. Il miglior modo per disinnescarne la retorica bellicista o vittimista, così come di rifiutare la costruzione di un’altra cortina di ferro, è forse quello di raccontare la Russia per quello che è. Cadrebbe così l’ultimo grande tabù sopravvissuto al crollo dell’Urss.

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