conflitti, disinformazione e la lotta per la verità

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Conflitti globali e giornalismo: il peso della disinformazione e la necessità di un risveglio umano

Torno da un viaggio in quella fetta di mondo dove il rumore degli spari è il coro costante del quotidiano, dove i bambini vengono addestrati a impugnare un fucile prima ancora di imparare a leggere. È la Repubblica Democratica del Congo, ma potrebbe essere uno qualsiasi dei tanti Paesi dove la guerra e la miseria sono tutt’uno. Apro il giornale, consulto le testate online, mi aspetto titoli altisonanti e approfondimenti essenziali: trovo, invece, retorica, disinformazione e l’ennesima grande svista sul dolore del mondo.

Eppure, in quest’era di sovrabbondanza mediatica, sembra assurdo che l’orrore resti invisibile. Siamo bombardati da notizie, da continue breaking news che si perdono in un vortice di immagini spettacolari e parole gridate. Ci vantiamo di avere tutte le informazioni a portata di mano e, paradossalmente, non sappiamo più nulla: la verità si disperde, la nostra empatia si anestetizza. Così, mentre in Etiopia infuria una crisi umanitaria (solo nel conflitto del Tigray, secondo stime accreditate dell’International Crisis Group, sarebbero morte fino a 500.000 persone tra il 2020 e il 2022), in Ucraina e Russia l’eco dei bombardamenti si ripete ogni giorno, e in Congo milioni di sfollati vagano senza meta, pronti a diventare ombre ancora più sottili.

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Ho camminato in villaggi sommersi dalla polvere rossa del Sud Kivu, dove ogni sorriso porta i segni della fatica e del terrore. Bambini di dieci anni assoldati da milizie ribelli come l’M23 o costretti a combattere dai gruppi Mai-Mai “Wazalendo”. Nel conflitto congolese, solo dal 1998 a oggi, si stima siano morte oltre 5 milioni di persone, rendendolo – dati alla mano dell’International Rescue Committee – uno dei conflitti più letali dopo la Seconda Guerra Mondiale. I racconti dei sopravvissuti si perdono in un silenzio che stride con la loro voglia di gridare. Ma l’assurdo è che, tornando a casa, ci si imbatte in una società che consuma notizie con la stessa voracità con cui si trangugiano merendine. Tutto scorre in fretta, tutto si brucia in un istante, e la realtà – quella vera – resta nascosta dietro un titolo accattivante ma vuoto.

Nel frattempo, il conflitto tra Israele e Palestina miete vittime ogni giorno. Secondo i dati delle Nazioni Unite, a Gaza e in Cisgiordania il 2023 è stato uno degli anni più sanguinosi dell’ultimo decennio. Ma l’attenzione mediatica s’incendia a intermittenza, cavalcando l’onda emotiva di un bombardamento più feroce del solito o di un attacco suicida più eclatante, per poi spegnersi nel giro di poche ore. Simili dinamiche si ripetono in Costa d’Avorio e in Sud Sudan, dove l’instabilità politica e i conflitti interni non hanno mai permesso alla pace di attecchire.

In questo caos, arriva la notizia dell’arresto di una reporter italiana, Cecilia Sala. Una storia che, se fosse riconosciuta come tale, servirebbe per riflettere sulla sorte dei tanti giornalisti e attivisti che ogni giorno rischiano la vita per raccontare ciò che il mondo non vuole vedere. Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ), nel 2022 erano ben 363 i cronisti imprigionati nel mondo; un dato destinato a crescere, se consideriamo che la repressione della libertà di stampa è in aumento in diverse regioni del pianeta. Ma cosa ne emerge dai grandi mezzi di comunicazione? Disinformazione, versioni imprecise, editoriali polemici che si scontrano in un’arena di opinioni spesso sterili. Le femministe gridano al sessismo, i vegani attaccano le multinazionali, gli ambientalisti denunciano i combustibili fossili, i religiosi predicano la morale. È una babele di voci dove la verità smarrisce i contorni.

L’ho toccato con mano in Congo, ma l’ho visto anche in altre zone del pianeta: la miseria non è soltanto materiale, è culturale, è morale. È la stessa miseria che spinge un parlamento – come quello iracheno, stando a voci di corridoio sulle ultime proposte di legge – ad abbassare l’età delle spose a 9 anni, una forma di pedofilia legalizzata. È la stessa miseria che fa sì che a Damasco o a Tripoli si parli di “liberazione” per mano di milizie jihadiste, che poi instaurano regimi di terrore in cui le donne scompaiono dai radar dei diritti, e gli oppositori vengono brutalmente repressi.

Sui giornali si leggeva che “Damasco è libera”, si esultava per una notizia falsa e fuorviante. I cronisti che puntavano il dito sulla reale natura di certe milizie venivano tacciati di allarmismo, quando invece stavano semplicemente facendo il loro dovere: informare. Ma oggi conta di più un titolo capace di creare “clic” e polemiche social che non una verità scomoda che faccia riflettere. La rivoluzione, diceva Padre Alex Zanotelli nella conversazione che ebbi con lui a Napoli, deve venire dal basso, dal popolo. Eppure, mi domando, come potremo costruire una rivoluzione vera se, noi per primi, siamo schiavi della superficialità, disposti a vendere la verità per un pugno di retweet?

Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), alla metà del 2023 si contavano oltre 110 milioni di persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie. Bambini che dormono a cielo aperto, uomini e donne che percorrono migliaia di chilometri con i pochi averi che hanno. E noi, qui, a discutere di titoli sensazionalistici e post sui social. Nel frattempo, in un ospedale da qualche parte nel mondo, 46 persone muoiono senza che nessuno se ne accorga; in una scuola esplosa, 150 bambini non avranno mai la possibilità di diventare adulti; e, nel silenzio di una notte gelata, 6 neonati esalano l’ultimo respiro coperti da stracci.

Leggere i rapporti di Medici Senza Frontiere (MSF) o di Human Rights Watch significa confrontarsi con epidemie di colera, malaria e malnutrizione. Si tocca con mano un mondo in cui i vaccini sono un lusso, il cibo un miraggio. Eppure, le cronache quotidiane preferiscono stordirci con dibattiti che, in fondo, producono solo chiacchiere. È questo il destino dell’informazione, diventare parte di un sistema che, per rimanere in piedi, si nutre del nostro stesso cinismo?

La verità, forse, è che abbiamo perso il senso di umanità. Abbiamo barattato l’empatia per un like, la compassione per un hashtag, e la dignità per un titolone che urli più forte di tutti gli altri. Chi ci guadagna? Certamente non quella “brava gente” che ogni giorno rischia la vita su un fronte dimenticato, in un quartiere degradato o in una cella stretta di un carcere segreto. Di fronte a queste verità, viene da chiedersi che senso abbia ancora denunciare, scrivere, documentare. Eppure, come insegnava Terzani, e come anche Padre Zanotelli ha ribadito con forza, il cambiamento non verrà da una qualche istituzione illuminata, ma da noi. Dal basso, dalla nostra volontà di rimettere al centro la dignità umana e di farlo con gesti concreti, con parole che pesino sul serio.

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Ci accorgiamo di quanto tutto questo sembri impossibile? Certo. Ma forse è proprio di fronte a questa sensazione di impotenza che si nasconde la nostra possibilità di riscatto. Il mondo è impazzito, è vero. Ma non per questo dobbiamo rassegnarci all’idea che non si possa far nulla. Raccontare, denunciare, pretendere un’informazione seria e onesta, smascherare i giochi di potere: sono i piccoli gesti da cui potrebbe germogliare una rivoluzione morale, prima ancora che politica.

Finché continueremo a confondere la verità con lo slogan, la sofferenza con la propaganda, e la giustizia con il nostro tornaconto, avremo perso in partenza. Ma se anche uno solo di noi, di quelli che sanno e che vedono, decidesse di non tacere più, se anche uno solo di noi iniziasse a denunciare la menzogna e a condividere i fatti reali, con tutti i loro numeri, allora saremmo già un passo oltre il baratro. E, chissà, magari un giorno potremmo persino diventare davvero una comunità umana che merita di chiamarsi tale.





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