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Nel chiudere il dibattito sulla manovra di bilancio per il 2025 il ministro Giorgetti ha rivendicato con orgoglio la “prudenza” che la caratterizza. Prudenza ben rappresentata dal rispetto dei vincoli del nuovo patto di stabilità e crescita europeo e premiata da una riduzione dello spread, il differenziale tra i tassi di interesse sui nostri titoli di stato e quelli tedeschi.
Un messaggio, quello del ministro Giorgetti, inviato alla nuora, l’Unione europea, per farlo intendere alla suocera, i mercati, da mantenere disponibili ad investire anche a tassi calanti in titoli del nostro debito pubblico.
Una prudenza necessaria, ma costosa sia socialmente che economicamente. Socialmente, perché non ha consentito, tra l’altro, di difendere dall’inflazione né le pensioni né i pilastri del nostro welfare come sanità e scuola. Tanto meno di prepararsi agli imminenti effetti degli aumenti del prezzo dell’energia.
Economicamente, per la mancanza di spazio fiscale per gli investimenti pubblici necessari a adeguare e mantenere in efficienza lo stock di capitale fisso (fisico e intangibile, umano, sociale, istituzionale) necessario per ridurre il divario, altrimenti crescente, di produttività totale dei fattori. Differenziale che affligge da tempo la nostra economia, condannandola ad un gap crescente di prosperità, e non solo rispetto alle economie più avanzate come gli USA.
Oggi Spagna, Portogallo e Grecia, che oltre una decina di anni fa venivano sprezzantemente etichettati, assieme all’Italia, con l’acronimo PIGS (doppio senso, in inglese, dove pigs sta per “maiali”) e additati a zavorra dell’eurozona, oggi viaggiano tutti, tutti i PIGS tranne noi, a tassi di crescita annuali del loro PIL (prodotto interno lordo) superiore al nostro di 1,5-2 punti percentuali.
Basta considerare che un punto in più di PIL garantirebbe all’Italia un maggior spazio fiscale di almeno 10 miliardi di euro l’anno (un terzo dell’intera manovra finanziaria del 2025!) per capire quanta urgenza abbia l’Italia di porre al centro della sua politica il tema della crescita.
Tema che non potrà trovare soluzione definitiva che in sede europea, perché è quella la scala alla quale si possono affrontare i problemi di competitività dell’economia della UE (e quindi di quella dei suoi stati membri) nei confronti della Cina, degli USA e non solo: il rapporto Draghi attende di essere tradotto in provvedimenti coerenti dalla nuova governance europea.
Ma l’Italia non può permettersi di restare ad aspettare. Nemmeno può lasciare fideisticamente il tutto all’iniziativa del mercato. In tempi di transizioni profonde, e nel momento che –lo fa anche il recente “Libro Verde Made in Italy 2030” lanciato dal ministro Urso—si prende coscienza dell’ operare prepotente di una terza transizione, quella geoeconomica e geopolitica, sta anche alla politica nazionale “inventare il futuro preferibile”, per dare a,famiglie, imprese e istituzioni il quadro di certezze –obiettivi e vincoli— entro il quale ridurre i rischi per le scelte che dovranno fare.
Se il quadro delle certezze macroeconomiche non potrà venire che dalla UE, quello place-based , geograficamente localizzato, non può che venire articolato dagli stati membri. Il tema è urgente per l’Italia che ha bisogno di tornare al più presto su un sentiero stabile di crescita –attorno al mitico 2% annuo—irrobustendo il livello di competitività internazionale di tutti e tre i blocchi produttivi sui quali la nostra economia si regge: la manifattura e l’incoming turistico internazionale, impegnati a difendere le posizioni già acquisite, e l’economia ad alta intensità di conoscenza, che quelle posizioni deve ancora conquistarsele.
Tutti e tre i blocchi produttivi hanno visto recentemente accelerarsi le transizioni in conseguenza della pandemia, delle guerre, ma anche dalle spinte contrapposte geo-economiche, alla globalizzazione, e geo-politiche, alla frammentazione, dei mercati globali.
La manifattura si è improvvisamente accorta che non può più solo accontentarsi di eccellere nelle produzioni di ieri, sempre più contese dalla “reverse innovation” che vede protagonisti i paesi emergenti, ma deve scalare lo spettro dell’innovazione e puntare ad avvicinarsi alla sua frontiera per produrre i beni, ibridati di servizi e a più alto valore aggiunto, di domani.
L’incoming turistico internazionale, quello maggiormente protetto dai beni pubblici culturali ed ambientali che agiscono da suoi attrattori, non può limitarsi a negare l’overtourism, come ha goffamente tentato di fare la ministra Santanché nel corso del G7 di settore a Firenze, ma mettere in campo politiche innovative di valorizzazione di città e borghi nel rispetto della loro capacità massima di accoglienza.
Ancora più place-based è la politica necessaria per accelerare lo sviluppo dell’economia ad alta intensità di conoscenza. Qui siamo di fronte a produzioni, e quindi ad imprese innovative da attrarre e a talenti da trattenere, ad alta propensione alla ubicazione urbana, a quella nelle città di più grande dimensione prima di tutto. Obiettivo oggi apparentemente fuori dai radar della politica nazionale, ma raggiungibile solo con una politica del “sistema di città”, da riconoscere e valorizzare nei rapporti gerarchici e spaziali tra aree metropolitane ed altri nodi urbani significativi.
Un esempio da seguire in materia è quello della politica britannica di levelling up, di riequilibrio nei confronti di Londra imperniato su cinque città metropolitane. In materia, l’Italia ha bisogno di una politica che solleciti le energie delle singole realtà urbane e metropolitane, ma in un quadro di certezze “inventate” a livello nazionale. Prima lo si fa prima si chiuderà il ritardo nei confronti dell’attrattività e della dinamica innovativa delle aree metropolitane europee concorrenti.
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