Damian Kocur, sotto il Vulcano, la guerra

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Abbiamo avuto il piacere di intervistare il cineasta polacco Damian Kocur. Il suo primo lungometraggio, Pane e Sale, una sorta di Fa’ la cosa giusta in salsa polacca con in sottofondo la musica di Chopin, era stato accolto benissimo in Laguna. Il suo secondo film, Under the Volcano, girato in Spagna con un cast ucraino, rappresenterà il Paese sulla Vistola per la corsa ai prossimi Oscar.

Perché hai scelto di ambientare «Under the Volcano» a Tenerife?

L’ispirazione è arrivata da un episodio di cronaca: tre anni fa una famiglia di turisti ucraini si è ritrovata improvvisamente bloccata in Madagascar dopo l’invasione russa dell’Ucraina. La scelta è ricaduta sulle Canarie per diversi motivi. Volevo ricollocare questa situazione in un contesto europeo per renderla più interessante anche da un punto di vista politico. Per non parlare poi di quanto sarebbe stato difficile girare e produrre questo film in Africa anche per motivi finanziari. Infine, devo dire che già conoscevo l’isola di Tenerife da visitatore e l’idea di far svolgere la storia «sotto al Teide» mi intrigava molto.

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Damian Kocur

Ci sono altri aspetti dell’isola oltre al vulcano che ti hanno colpito da regista?

Anche il carnevale a Tenerife, secondo nel mondo solo a quello di Rio, è stato come una calamita per me. Abbiamo girato abbastanza materiale anche se poi alla fine per motivi di montaggio non siamo riusciti e metterci dentro tutto quello che avevamo catturato. Eppure la sua presenza nel finale si è rivelata essenziale nell’economia del film. Da un punto di vista geografico le isole Canarie sono in Europa ma sono allo stesso tempo vicine al continente africano. Sembrano quasi sospese tra due mondi. Occupano una posizione ambigua che sembra riflettere quella dei protagonisti del film che si ritrovano tutto d’un tratto nella condizione di esuli su un’isola.

I protagonisti del film sono tutti ucraini. Come è stata vissuta questa barriera linguistica tra te e loro sul set?

Pur essendo il polacco e l’ucraino per certi versi simili, anche dopo aver girato questo film non posso dire di cavarmela in ucraino. Durante le riprese le cose sono andate avanti benissimo tra di noi senza la necessità di doversi capire con le parole. Avvertivo quando rispondevano presente da un punto di visto emotivo. Una certa verità è venuta fuori sul set e tanto basta. Certo si tratta di un film di finzione ma alcune scene hanno un valore quasi documentario. Da un punto di vista pratico poi, la scelta di puntare su un direttore della fotografia ucraino (Nikita Kuzmenko ndr) ha agevolato in alcuni momenti la comunicazione con gli attori.

Anche in questo film come in «Pane e Sale» i personaggi portano il nome degli attori che li interpretano. Possiamo considerare questo aspetto come parte di un metodo?

Forse metodo è una parola troppo forte in questo caso. Ma mantenere il proprio nome sul set è un modo di fare le cose che permette di instaurare una certa vicinanza con gli interpreti. Quando un attore viene chiamato con il proprio nome mentre recita e si rapporta con gli altri personaggi, è normale che reagisca in modo più naturale agli stimoli esterni. Nel caso di Under the Volcano gli attori si sono conosciuti per la prima volta nel corso di una videochiamata prima di incontrarci tutti insieme di persona a Kiev.

A venir fuori ancora una volta come nel film precedente il tema dell’accoglienza, o meglio, dell’impossibilità di sentirsi a casa.

In un certo senso è vero. In Pane e Sale il pianista Tymoteusz non si ritrova più nella realtà di provincia nel quale è cresciuto. Certo, nessuno lo costringe a trascorrere le vacanze a casa ma qualcosa sembra essersi rotto quando prova a interagire con gli amici d’infanzia. L’adolescente Zofia e la sua famiglia invece finiscono per sentirsi estraniati lontano da casa in seguito allo scoppio della guerra. Il conflitto scompagina tutto. Da esiliati a Tenerife con il trascorrere del tempo sembra quasi che finiscano sempre più per parlare senza davvero ascoltarsi. La solitudine sembra essere allo stato tempo la causa e la conseguenza di questa condizione.

Paradossalmente in alcuni momenti del film si ha quasi come l’impressione che i personaggi siano indifferenti alla tragedia della guerra che sta devastando il loro Paese. Penso ai conflitti di coppia tra Roman e Anastasiia.

Il confitto tra i due è latente. Gli spettatori sono testimoni di un distacco emotivo in crescendo tra i due personaggi. Qui l’invasione del 24 febbraio 2022 c’entra poco o quasi niente. D’altro canto le cose funzionano così anche nella realtà quando la guerra entra nel quotidiano. Si fanno largo il bisogno e la volontà di vivere una «vita normale». Alcune persone in Ucraina mi hanno confermato che con il passare del tempo la frenesia nel cercare notizie sulla guerra va scemando. D’altro canto anche noi da spettatori esterni non scrolliamo le notizie sullo schermo con la stessa frequenza di prima. Prima di realizzare questo film ho pensato adesso mai più. A conti fatti ho avuto l’impressione che siamo riusciti a mostrarlo prima ancora che la guerra scivolasse nella banalità del quotidiano.

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Sei riuscito nell’impresa di girare un film di guerra atipico senza soldati o carri armati. Ma per te «Under the Volcano» è un war movie?
Non saprei rispondere con esattezza a questa domanda. Gli spettatori vedono la guerra in pochissimi frangenti e soltanto attraversi gli schermi di un telefono. Quasi ovunque nel film osserviamo Roman, Anastasiia e Zofia mentre fissano i dispositivi che utilizzano di volta in volta per tenersi al corrente a distanza sul conflitto. Non me la sono sentita di fare di più. La verità è che questa non è la mia guerra. Chi sono io per ricreare questo conflitto in uno studio cinematografico? Da un punto di vista etico, lo avrei vissuto come uno sfruttare le disgrazie altrui.

In «Under the Volcano» la realtà del conflitto sembra evocata dai suoni più che dalle immagini. Che si tratti del frastuono delle onde che si infrangono sulle rocce o quello dei fuochi d’artificio.

E così. La guerra non si vede tanto nel film ma piuttosto la si sente. Ne ho avuto la conferma quest’anno dopo averlo portato al Festival internazionale di cinema Molodist a Kiev dove si sono sentite diverse volte le sirene antiaeree. Con me c’erano anche Anastasiia e Zofia. Il rumore dei fuochi di artificio che si sente nel film ha suscitato delle emozioni forti in platea. Alcune persone tra il pubblico hanno confessato dopo la proiezione di aver rivissuto il rumore assordante delle bombe che continuano a cadere sul loro Paese.

Potresti parlarci di qualche idea diventata ormai un progetto?

Ho diverse cose in cantiere. I miei primi due lungometraggi sono stati accolti in modo positivo. E un momento in cui godo di una certa stima. Non voglio ignorare questo clima di fiducia che si è creato intorno a me. Spero di poter lavorare molto presto a un film sulla crisi umanitaria in corso al confine tra Polonia e Bielorussia. Vorrei provare a raccontare la questione dei rifugiati da un punto di vista diverso da chi per esempio come Agnieszka Holland ha già trattato questo argomento sul grande schermo.

***

Damian Kocur è un regista e sceneggiatore polacco. E nato nel 1983 a Katowice, il capoluogo della regione Slesia. Ha studiato cinema alla Krzysztof Kieslowski Film School nella sua città natale prima di cominciare un dottorato presso la prestigiosa Scuola di cinema di Łódz. E’ membro dell’Accademia europea del cinema. Grazie al cortometraggio« Beyond Is the Day» (2020) ha ottenuto diversi riconoscimenti a Trieste, Clermont-Ferrand e Cracovia. Nel 2022 è stata la volta del suo esordio al lungomentraggio «Chleb i sól» (Pane e Sale) con il quale ha ottenuto il premio della giuria nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Due anni dopo è uscito il suo secondo film «Under the Volcano» presentato al Festival del cinema di Gdynia e scelto per rappresentare la Polonia agli Oscar 2025 come miglior film straniero.

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