Il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, uniti agli ingressi sempre più tardivi nel mondo del lavoro, mettono sotto pressione il sistema previdenziale italiano, rischiando di renderlo presto insostenibile. Secondo gli analisti di Moneyfarm, società di consulenza finanziaria con approccio digitale che ha condotto uno studio per fare il punto sulla situazione in cui si trova il nostro sistema pensionistico, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil è pari in Italia al 15,6% e salirà al 17% nell’arco dei prossimi quindici anni. In questo contesto le adesioni alle forme di previdenza complementare dovrebbero risultare in aumento, ma non è così. Secondo lo studio oggi solo un cittadino su quattro di età compresa tra i 30 e i 59 anni sta investendo in previdenza integrativa. Degli oltre 24,2 milioni di cittadini nati tra il 1965 e il 1994, pari al 41% della popolazione italiana, quelli che hanno un fondo pensione sono appena il 26%. Il restante 74% è occupato senza un fondo pensione oppure è inoccupato.
LA STRATEGIA
«La previdenza integrativa è un viaggio che può partire a qualsiasi età, ma il traguardo dipende da quando si comincia, dalla strategia di investimento adottata, dall’ottimizzazione dei benefici fiscali e dal modo in cui si sfrutta il Tfr», ha spiegato Andrea Rocchetti, Global Head of Investment Advisory di Moneyfarm, presentando l’indagine “Obiettivo 90%”. Moneyfarm nel 2020 ha lanciato un Piano individuale pensionistico sottoscrivibile completamente online, che al momento rappresenta una tra le soluzioni più competitive presenti nel panorama italiano. «Investire in previdenza integrativa non è ancora diventata una consuetudine per i lavoratori italiani, per questo l’industria del risparmio è chiamata a svolgere un ruolo attivo di informazione e consulenza – prosegue Rocchetti – sottolineando l’importanza di agire il prima possibile, investendo in una forma di previdenza complementare per affrontare più serenamente il proprio futuro, senza essere costretti a modificare il proprio tenore di vita una volta usciti dal mondo del lavoro». Mentre le generazioni passate, grazie al più generoso sistema retributivo, potevano contare su una pensione che garantiva l’80% dello stipendio, quelle che usciranno dal lavoro in futuro vedranno scendere significativamente il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto tra l’assegno pensionistico e l’ultimo reddito da lavoro percepito. Le stime del Tesoro indicano un calo dall’attuale 70% al 59% nel 2070 per i dipendenti privati e un calo dall’attuale 55% a un modesto 47% per i lavoratori autonomi. Questo significa che, in assenza di una pianificazione adeguata, chi andrà in pensione corre il pericolo di vedere il proprio reddito ridursi di circa la metà. L’indagine di Moneyfarm esplora le soluzioni per garantirsi, una volta lasciato l’ufficio, risorse complessive vicine al 90% del reddito attuale, sommando alla pensione pubblica quella integrativa.
L’ETÀ
Il tempo costituisce un fattore chiave. A un trentenne dipendente sarebbe sufficiente investire in previdenza integrativa il 9% del proprio reddito per raggiungere l’obiettivo del 90 per cento. Un sessantenne autonomo, al contrario, stando ai calcoli degli analisti di Moneyfarm dovrebbe impegnare il 72% del proprio reddito in una linea a rischio medio (50% obbligazionaria e 50% azionaria) per farcela. L’investimento da sostenere per raggiungere l’obiettivo del 90% varia anche a seconda del profilo di rischio. Nelle elaborazioni di Moneyfarm viene considerato un rischio basso (100% obbligazionario governativo europeo) e uno alto (100% azionario globale). Ne emerge che per un lavoratore dipendente trentenne che investe ad alto rischio la quota di reddito da impegnare per garantirsi una pensione integrativa di buon livello sarà del 4%. L’asticella sale fino al 77% per un sessantenne autonomo che investe a basso rischio e che non è disposto a rinunciare a più del 10% delle sue risorse dopo l’addio al lavoro.
L’EFFETTO
Il Trattamento di fine rapporto è l’asso nella manica. Il bonus che si incassa a fine carriera, con la giusta strategia, può fare la differenza in termini di pianificazione finanziaria. Se da un lato è vero che lasciare il Tfr in azienda non comporta costi, dall’altro il vantaggio di trasferirlo in una forma di previdenza integrativa è che così facendo si riduce la parte di reddito netto da destinare alla pensione supplementare. Anche in questo caso, sottolinea Moneyfarm, l’effetto varia in base al tempo che manca alla pensione. Nel caso di un trentenne il Tfr arriva da solo quasi a coprire l’obiettivo del 90%: per tagliare il traguardo basterebbe aggiungere un ulteriore 1% della propria retribuzione (contro il 21% di un cinquantenne). L’aiuto del Trattamento di fine rapporto, conclude lo studio, è tangibile e può abbassare l’investimento aggiuntivo necessario tra il 29% di un sessantenne e il 92% di un trentenne.
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