Lunedì 30 dicembre 2024 – Due cerimonie dal profondo significato e con messaggi forti per i fedeli si sono svolte ieri a Potenza e a Matera per l’apertura dell’Anno Giubilare.
Mons. Davide Carbonaro, Vescovo Metropolita di Potenza, Muro Lucano e Marsiconuovo si è inginocchiato davanti alla porta della Cattedrale di San Gerardo (vedi foto di copertina) prima di raggiungere, in una chiesa gremita, l’altare per celebrare la Messa.
OMELIA DI MONS. CARBONARO
“Ogni buon pellegrinaggio comincia dal cuore, poi conduce i nostri passi, perché la direzione è certa. Nel cuore avviene l’incontro che muove le nostre ricerche e che genera incontri. Oggi la liturgia presenta il mistero della famiglia come luogo di pellegrinaggi. I testi biblici tra profezia e compimento ci mostrano la direzione della storia salvifica. Ci si mette in cammino per chiedere a Dio ed è Dio che si mette in cammino con l’uomo, allargando i suoi orizzonti. I primordi della storia profetica di Samuele cominciano dal pellegrinaggio dei suoi genitori, fatto di domande e di lacrime, segnato dalla speranza verso quel Dio che non ha mai deluso il cuore di un padre e il grembo sterile di una madre. Il pellegrinaggio ci mette sulla strada del Dio dell’impossibile, che non confonde l’umana speranza, ma si confonde in essa. Questa speranza, resa viva dalla fede dei padri e delle madri di Israele, torna oggi a ravvivare i nostri cammini. Anche nella coppia qualche volta, come è accaduto ad Elkanà ed Anna, uno deve camminare l’altro sostare. Ma l’uno nel cammino, porta la fede dell’altro, perché il destinatario di ogni movimento vitale è quel Dio che chiama a sé, che dona e richiede quanto donato. Il narratore biblico riporta questo movimento nell’etimologia del termine Samuele, il quale andrebbe tradotto letteralmente: “nome di Dio”, ma che l’autore biblico per sostenere il mistero rivelato in queste pagine, traduce: “Dio lo ha richiesto”. Il frutto delle lacrime di Anna e della speranza di Elkanà, sono proprietà di un Altro. Ciò che è donato da Dio siamo chiamati a restituirlo. I figli eredità della vecchiaia dei loro genitori, sono il sentiero tracciato da Dio perché siano prolungati i loro giorni.
Anche nel testo evangelico, il culmine del pellegrinaggio, come vuole la tradizione biblica, è il tempio di Gerusalemme. Qui Luca riporta la sua attenzione narrativa dopo aver, all’inizio del suo Vangelo, segnalato l’annunzio dell’ultimo dei grandi profeti: Giovanni, anche lui figlio di una sterilità resa feconda dalla parola e di un nome che restituisce la profezia degli ultimi tempi. Per Luca, la ricerca di Gesù, il ritorno indietro di Giuseppe e Maria, dopo il pellegrinaggio tradizionale al Tempio, inaugura un nuovo pellegrinaggio che con Gesù condurrà alla sua Pasqua, consumata a Gerusalemme e al suo Esodo, che porterà i cammini di ogni uomo e donna nel cuore del Padre suo.
Famiglia di Nazareth esperta nell’amare e nel soffrire, desideriamo oggi camminare con te, farci pellegrini tra le vie tortuose del nostro tempo, tra i mercanti del nulla, i trafficanti di illusioni, i venditori di affetto a basso costo, i prepotenti e gli arroganti che pretendono di avere la soluzione sulle questioni del vivere e del morire. Ti chiediamo un “contagio di santità” dentro le nostre relazioni umane. Santità che non significa perfezione a tutti i costi, ma premuroso pellegrinaggio dentro la parola che si è fatta carne, che assume qui ed ora la mia e la tua carne. In tal senso possiamo comprendere la Parola di oggi. Anna ed Elkanà che consegnano il figlio della speranza e della richiesta nel tempio, perché questi “possa vedere il volto del Signore” e Maria e Giuseppe che, dopo un’affannosa ricerca, trovano Gesù nel tempo e lo riconducono a Nazareth dove tra le case e sulla soglia delle città degli uomini, manifesterà il volto misericordioso di Dio. E noi mentre lo seguiamo nella sua manifestazione, desideriamo diventare sempre più simili a lui per vederlo così come egli è.
Ora, nel nuovo tempio che è la casa degli uomini, Dio infinitamente paziente ci cerca, ci ama, ci fa crescere come figli in sapienza, perché possiamo gustare nel vivere la quotidianità i doni ricevuti da lui. In età, perché possiamo maturare nella pianezza dell’amore e della statura di Cristo. In grazia, perché possiamo sperimentare la gratuità dell’amore e della libertà. Ora, questa tua “infinita pazienza Signore può irritare, ma solo coloro che preferiscono il giudizio alla misericordia, la lettera allo spirito, il trionfo della verità alla esaltazione della carità, lo schema all’uomo” (Don Mazzolari). Il bambino di Betlemme che abita la famiglia umana sfugge gli schemi e le strategie e ci insegna ad occuparci delle cose e della casa del Padre. Ci sorprende questa risposta di Gesù; ci aspetteremmo un suo congedo da Giuseppe e Maria, perché ora ha trovato il suo posto nel tempio. Mi piace immaginare che per un istante questo pensiero è passato nella mente e nel cuore dei genitori di Gesù. Ma Egli, annota l’evangelista Luca: “Scese con loro a Nazareth e stava loro sottomesso”.
Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte dell’umano, guardando i suoi genitori impastati dal quotidiano vivere. Lì gli angeli non ci sono più, i misteriosi magi hanno preso altre strade. Tra le materne attenzioni di Maria e le rugose mani del carpentiere Giuseppe, Gesù apprende le beatitudini. In tal modo Dio parla il linguaggio degli uomini, dei loro affetti delle loro relazioni, dei loro limiti. In Maria e in Giuseppe, Gesù scopre che gli uomini e le donne possono essere poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, pieni di misericordia con tutti. Tra le mura domestiche Gesù ha imparato a pronunciare il nome di padre e madre; ha appreso le leggi dell’ospitalità e dell’amicizia; che il pane e la gioia possono essere moltiplicati; che le ferite del corpo e del cuore si possono guarire, che l’amico può tradire, che la violenza e la morte possono imprigionare la vita umana, ma che Dio ha l’ultima parola sui segreti del cuore umano. “Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, di collaborazione e solidarietà: straordinarie nelle piccole cose. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici e far felici gli altri.
Carissimi fratelli e sorelle il Giubileo che si apre ci conduce per mano dentro il mistero e dono biblico della restituzione. In questo anno di grazia e di responsabilità siamo chiamati ognuno con la propria vocazione, a restituire Dio all’uomo e l’uomo a Dio. Restituire a questa nostra terra segnata da infiniti conflitti, quella pace che trova spazio nel cuore dell’uomo se ci si ascolta, se si apprende che il dolore non è solo da una parte, che l’altro è mio fratello, che portiamo ferite antiche e nuove difficilmente sanabili nelle nostre solitudini. Dove c’è odio che io porti l’amore. Restituiamo alla terra e al creato la sua bellezza, la sua fecondità, la sua vocazione di maternità, la sua forza creatrice. Restituiamo alle nostre famiglie il vigore di chiamare per nome le relazioni primarie, strappandole dall’autodeterminismo e da fughe antropologiche vuote e autoreferenziali. La famiglia è il luogo della domanda che fa crescere in grazia e sapienza davanti a Dio e agli uomini. Custodisce il senso dei nostri perché fin da bambini. Non esaurisce il suo compito educativo. Restituiamo alle istituzioni pubbliche il principio di responsabilità. La capacità di rispondere con verità e attenzione a chi chiede. Sosteniamo insieme la cura di quel bene comune che devo custodire e lasciare alle future generazioni non deturpato, ma arricchito. Restituiamo intelligenza e cuore per chi si prepara a guidare le sorti dell’umanità. Le scelte di oggi sono la forza del nostro domani. Restituiamo dignità alle popolazioni che migrano a causa della guerra, della violenza, delle scarse condizioni economiche e delle desertificazioni climatiche. Alberghi nel nostro cuore il primato dei piccoli e dei poveri. L’altro non è il mio avversario, non mi sottrae lo spazio vitale, è mio fratello e ha diritto ad abitare con me, a condividere quella terra che è dono di tutti. Restituiamo giustizia al lavoro, rimettendo al centro la persona e non il profitto. Torniamo a restituire creatività a quelle forme imprenditoriali che non curano solo i propri interessi, ma la crescita integrale della persona umana con tutti i suoi diritti e i suoi doveri. Restituiamo alle giovani generazioni la forza dei loro sogni, la dinamica dei loro desideri. Non schiacciamo il loro progresso dentro i nostri egoismi e le nostre pretese, apriamo la strada al loro futuro senza condizionare le loro scelte. Restituiamo alla Chiesa e alle nostre Chiese di Basilicata il primato della Missione evangelizzatrice, senza ritirarsi dentro forme di autoritarismo clericale e nostalgia di un passato che non esiste più. Accendiamo il cuore di uomini e donne di quella Verità che è Cristo, colonna e fondamento del vivere e dell’amare, facendo della speranza la passione che guida i cuori verso l’Altro e verso l’Oltre. Spendiamo tempo ed energia non per la salvaguardia delle strutture ma per la gioiosa edificazione della persona a partire dai valori del Vangelo.
Santa Maria del Sacro Monte di Viggiano che in questi giorni sei pellegrina di speranza in mezzo ai figli di questa Chiesa di Potenza Muro Lucano Marsico Nuovo, spalanca per noi quella Porta che è Cristo, autore e perfezionatore della nostra fede, Santuario del Padre in questa nostra umanità, Sussurro dello Spirito Santo per tutti i pellegrini di speranza”.
Con una solenne cerimonia partita dalla chiesa di San Francesco d’Assisi alla Cattedrale di Matera anche la diocesi di Matera-Irsina ha celebrato nel pomeriggio di ieri, 29 dicembre, l’apertura del Giubileo della Speranza.
OMELIA DI MONS. CAIAZZO
“Carissimi, fratelli e sorelle, istituzioni civili e militari, confratelli sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, anche noi, come Chiesa di Matera-Irsina, abbiamo dato inizio ufficialmente alla celebrazione del giubileo del 2025 con il rito introduttivo della statio presso la chiesa di S. Francesco d’Assisi e la breve processione verso la Basilica Cattedrale.
Nel cammino dell’anno liturgico, la domenica subito dopo il S. Natale di Gesù, la Chiesa celebra la solennità della S. Famiglia. In questo anno l’episodio del pellegrinaggio della famiglia di Nazareth al tempio di Gerusalemme ci presenta la conclusione dei racconti dell’infanzia di Gesù. Un Gesù che già a 12 anni mostra una libertà che gli deriva dal suo rapporto con il Padre, che viene prima dell’affetto dei propri cari. Secondo la tradizione giudaica il dodicesimo anno era legato all’usanza del bar mitsvah (il figlio del precetto). La Bibbia ci ricorda che a quell’età Samuele cominciò a profetizzare (1Sam 3) e Daniele pronunciò una sentenza molto saggia (Dan 13).
La famiglia di Nazaret, soprattutto ai nostri giorni, viene riproposta come il modello delle famiglie cristiane, anch’esse ormai impastate con altri modelli che sono esattamente il contrario della proposta evangelica. La famiglia cristiana si costruisce sulla Parola di Gesù, la roccia che impedisce a venti, alluvioni, terremoti che si abbattono su di essa di farla crollare. C’è bisogno di tanta misericordia.
In questa logica cerchiamo di capire cosa significa il termine “Giubileo”. Deriva dall’ebraico “yobel”, che era il corno di montone che veniva suonato per annunciare l’inizio di un anno speciale. Nella nostra tradizione cattolica ha assunto un significato più profondo. Non a caso lo definiamo come un tempo di grazia e misericordia, un’occasione unica per riconciliarsi con Dio e con il prossimo.
Abbiamo un simbolo centrale di questo percorso rappresentato dalla Porta Santa. Passare attraverso di essa significa compiere un gesto di affidamento a Cristo e di rinnovamento interiore. Quest’anno è stata aperta da Papa Francesco la porta della Basilica di S. Pietro. Nelle Chiese particolari, come la nostra Arcidiocesi, ci sono diversi luoghi da me indicati con Decreto apposito che già da tempo hanno ricevuto tutti i sacerdoti, incominciando da questo luogo che è la Basilica Cattedrale, per celebrare l’Anno Santo.
La valenza spirituale della Porta, in ambito cristiano, è presentata con la cosiddetta Porta Santa che è Gesù Cristo: “Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10, 7).
E’ l’anno della speranza: siamo tutti chiamati ad essere viandanti di speranza e come lo stesso Papa Francesco nella sua omelia del 24 dicembre ci ha ricordato: “Con l’apertura della Porta Santa abbiamo dato inizio a un nuovo Giubileo: ciascuno di noi può entrare nel mistero di questo annuncio di grazia. Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi”.
Ribadisco in questa occasione quanto ho avuto modo di scrivere nella lettera pastorale che “La Chiesa per prima, in particolare nella nostra terra di Basilicata, deve essere capace di mostrare il suo dolore, gridarlo a Dio al solo scopo di ritornare a vivere e far vivere, attraverso un contagio d’amore, la condizione della condivisione nella quale i fratelli siano sempre vittoriosi e gioiosi di percepire quel legame. E questo perché di una cosa siamo certi: dalla propria malattia, dal proprio dolore si ritroverà forza e sarà risurrezione.
Oggi, ancora una volta, come Chiesa nel nostro territorio di Matera-Irsina, siamo chiamati a guardare le tante mani inaridite, le tante paralisi spirituali, la disperazione dalle tante grida di dolore a causa di ingiustizie, per essere sanati dalla presenza viva e reale di Gesù nell’Eucaristia che ci dice di tendere a lui tutte le mani. Questa è la nostra speranza. Speranza che «nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce» (FRANCESCO, Spes non confundit, 1).
In questo nostro tempo, a Matera come a Tricarico, a Roma come in qualsiasi altro posto del mondo, ben conoscendo le nostre debolezze e rispondendo all’invito di Gesù risorto, ci mettiamo, come Chiesa, a servizio di questa umanità che riscopriamo fragile, annunciando la speranza della misericordia attraverso quella pazienza tipica del contadino nel dissodare il terreno, seminare, attendere, trebbiare, qualsiasi altro tipo di lavoro che richiede sempre tempo, come lo richiede ogni crescita e tessitura.
Un servizio, il nostro, che deve mettere da parte calcoli, titoli e convenienze, aprendosi alla novità di Dio che ci meraviglia sempre, rendendo feconda la Chiesa e rispondendo come la Vergine Santa: “Eccomi”. Un “Si” che si rinnova nel tempo e nella diversità ministeriale.
Il Giubileo diventa così, per le nostre Chiese di Matera-Irsina e di Tricarico, un’ulteriore opportunità per essere propositivi. Mi spiego. Per la nostra gente e il nostro territorio non c’è solo bisogno di denunciare le criticità, le problematiche, le paure e le sofferenze. Questo lo sappiamo fare tutti. C’è bisogno di proposte concrete, e di progetti da realizzare e concretizzare al più presto in opere. Ognuno è chiamato ad emergere dal pantano delle lamentele spesso sterili e strumentali, facendo proposte concrete. Le idee, ne sono certo, non mancano. Bisogna sposarle perché diventino realtà. Proposte che devono venire dal basso, incominciando dai giovani, dalle giovani coppie, dal mondo imprenditoriale, dalla cultura, dalla Chiesa. Le idee superano gli steccati politici e ideologici. Purché si lavori per il bene comune e non per ottenere consensi.
Tra i tanti campi dove seminare speranza c’è quello delle nuove generazioni. È il campo educativo che semina e va seminato a più mani: famiglia, scuola, gruppi, aggregazioni, Chiesa: tutti coinvolti, avvertendo la responsabilità e l’urgenza. Ma di campi dove seminare la speranza ce ne sono tanti. Siamo circondati, anzi spesso anche noi stessi abbiamo bisogno che qualcuno semini la speranza nel nostro terreno perché porti frutto.
Ogni semina che rispecchia le opere di misericordia spirituali e corporali sana le ferite del cuore, rinfranca le ginocchia dell’umanità sofferente. La Chiesa, attraverso i suoi figli, nella sapienza ricevuta da Dio per opera dello Spirito Santo, sa benissimo che dare da mangiare a chi è nel bisogno e nella necessità vuol dire nutrire quanti si sentono fragili perché abbandonati e pieni di paura. Così come dare da bere a chi ha sete significa, ai nostri giorni, fermarsi, dedicare tempo e ascoltare chi è solo, chi ha lasciato la sua terra in cerca di un mondo migliore, diverso.
Tutto questo significa riaccendere la speranza e mostrare il volto del Dio di Gesù Cristo che provvede alle necessità primarie dei suoi figli. Non c’è gioia più grande di quando si restituisce dignità alla persona ammalata nel cuore, nella mente, nel corpo, aiutandola a liberarsi dal peso dell’errore che ha commesso. Eppure spesso anche noi che celebriamo l’Eucaristia, la misericordia di Dio, mostriamo l’apparenza di una fede mascherata da forme devozionali che mettono a tacere quanto la coscienza ci rimprovera o teme.
Auguro a tutti noi di vivere quest’anno cercando la grazia di Dio e, sotto l’azione dello Spirito Santo, di camminare con Maria e Giuseppe ascoltando la Parola di Gesù.
Così sia.
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