Nei programmi dei progressisti dove sono le proposte economiche e fiscali convincenti?

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Ho dedicato molte critiche alle proposte sbagliate e populiste della destra-destra, cercando di mostrarne l’inconsistenza e gli errori. Ma anche in politica non si può vincere di rimessa o giocando in difesa. È ora di guardare, sempre con occhio critico, anche alle proposte economiche dei progressisti. Cosa si vede sull’altra sponda del fiume della politica nostrana?

Purtroppo ben poco, come nel paesaggio disegnato dal grande Buzzati nel Deserto dei Tartari. Scrutando in lungo e in largo, non sono riuscito a scorgerle per la finanziaria 2025, se non in lontananza quella tradizionale del salario minimo. Insoddisfatto, ho fatto di più. Ho recuperato il programma elettorale del Pd per le elezioni del 2022 e ho scoperto, con mia grande sorpresa, che la proposta di punta per sostenere il salario era una fiscalizzazione dei contributi sociali di circa mille euro l’anno. Proprio quello che il governo Meloni ha definitivamente introdotto nel 2025. La politica dei bonus ha contagiato tutta la politica italiana, destra e sinistra, come un virus mortale.

Si sente la mancanza di un ministro ombra dei progressisti che faccia delle proposte chiare e fattibili in campo economico. Oramai siamo a metà legislatura e sarebbe ora di dire qualcosa, oltre che produrre le solite lamentazioni su ciò che (non) fa la compagine governativa. In attesa che suoni la sveglia, proviamo a dire qualcosa.

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Le proposte discendono naturalmente dalla direzione di marcia. Qui il discorso è facile. I progressisti si distinguono dai conservatori per due punti: la difesa dei redditi da lavoro (e da pensione) e il rafforzamento dello stato sociale, ora declinato come l’insieme dei beni pubblici. E questo non per motivi morali, come qualcuno ingenuamente pensa, ma per motivi di convenienza economica, personale e collettiva. Salari più elevati, come diceva Keynes, fanno bene all’economia sostenendo la domanda globale. Beni pubblici di qualità migliorano la vita e sono più economici di quelli offerti dal mercato.

Iniziamo dal salario. Perfino il prof. Draghi, tecnocrate disoccupato in cerca di nuova collocazione istituzionale, va dicendo che i salari in Italia sono troppo bassi. Dato arcinoto che finalmente la saggezza tecnocratica ha acquisito. Il problema è cosa fare, ma il sommo economista non lo dice. Proteggerlo, come fa Meloni con un altro bonus fiscale, è un’illusione e un errore. Un’illusione perché il bonus non matura pensione per il lavoratore ed è finanziato in deficit. Quindi il problema è rimandato. Un errore perché il bonus non corregge in maniera strutturale l’iniqua distribuzione dei redditi, anche in Italia tutta a favore dei profitti e delle rendite finanziarie.

È un fatto stranoto che negli ultimi anni i salari siano rimasti stagnanti. La crescita economica è andata tutta a favore dei profitti e delle rendite. La protezione dei salari richiede misure nuove, anzi vecchie. Per esempio, si potrebbe tirare fuori dalla naftalina l’adeguamento automatico annuale dei salari. Oggi il problema non è come negli anni Settanta la caduta dei profitti ma, al contrario, la caduta dei salari. La scala mobile aiuterebbe i salari e la domanda aggregata, trainando l’economia reale.

Per quanto riguarda i beni pubblici, qui la crisi del 2008 ha colpito duro. Invece di incolpare la finanza privata che ha creato il nuovo disastro finanziario, per ragioni oscure la responsabilità è stata scaricata sul bilancio pubblico. È iniziata la folle stagione della spending review che ora Meloni vuole disgraziatamente riproporre. Questa stagione ha portato al livello minimo la spesa dello stato per servizi e di conseguenza anche la loro qualità ne ha sofferto. Per ripartire occorre trovare nuove risorse. Ma dove?

Qui sta il punto. I progressisti le vanno a cercare dove si sono create. Non si possono tassare salari e consumi, invece si devono tassare profitti e rendite. Qui le formulazioni possono essere le più diverse, sul modello della sinistra francese oppure inglese. Se poi vogliamo guardare al caso italiano, qui abbiamo due anomalie create dalla politica. La prima è la bassissima tassazione delle successioni con una perdita di gettito di 5-6 miliardi di euro. La seconda è l’evasione fiscale di massa che ci costa 100 miliardi l’anno.

Quindi per un governo serio, di sinistra ma anche di destra, non ci sarebbe che l’imbarazzo della scelta per rimettere le cose a posto senza far soffrire la stragrande maggioranza degli italiani, di oggi e di domani.

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A cosa potrebbe servire un programma anche minimale dei progressisti sul versante economico? Semplicemente a convincere l’altra metà del cielo elettorale. Come hanno mostrato le recenti elezioni regionali, un elettore su due è rimasto a casa. Chi non va alle urne ha voltato le spalle alla destra, ma non si ritrova nemmeno nelle proposte progressiste. Elettori ed elettrici stanno per ora a guardare, ma darebbero volentieri il voto a proposte progressiste sensate e utili per il loro portafoglio. Finora i progressisti si sono affidati all’armocromia dei diritti à la Schlein.

Questa battaglia per i valori di libertà è condizione necessaria ma non sufficiente per battere la destra antidemocratica. Serve una più corposa armocromia della politica economica e fiscale che riporti la società su di un binario di efficienza ed equità, che non può essere quella dei bonus. Aspettiamo allora con una certa impazienza le proposte, poche ma significative, del governo ombra progressista su salario, pensioni e stato sociale. Non vorrei vedere la solita scena che mentre a sinistra si litiga sui massimi principi, a destra ci si spartisce prima il bottino elettorale e poi quello economico.



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