Accogliendo il 26 dicembre a Rebibbia Papa Francesco, il ministro della Giustizia avrà pensato a quante rognose polemiche si sarebbe portata appresso questa corvée post-natalizia da portinaio delle galere, su cui comanda come incontrastato podestà il suo sottosegretario e superiore politico Andrea Delmastro Delle Vedove. Se l’è cavata con due battute, che avrebbe potuto sottoscrivere pure Fofò Bonafede, sulla necessità di portare in carcere sport e lavoro, arte e cultura. Neppure mezza frase sull’opportunità di portare fuori dal carcere un po’ di detenuti, condannati ad aspettare un fine pena più o meno prossimo in condizioni di cattività bestiale, e di non stiparvi migliaia di innocenti in attesa di giudizio, destinati a gonfiare il conto e le spese delle ingiuste detenzioni.
Eppure la situazione fuori controllo è documentata proprio da chi la dovrebbe, per così dire, controllare. Secondo l’ultimo report del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute i cosiddetti eventi critici (dalle aggressioni alle sommosse, dagli atti di autolesionismo ai suicidi) sono aumentati a dismisura nell’ultimo anno. Gli atti di autolesionismo sono stati dodicimilacinquecentoquarantaquattro, circa un caso ogni cinque detenuti; i tentati suicidi sono stati duemilatrentacinque. I suicidi tristemente riusciti sono stati finora ottantotto; il suicidio è la prima causa di morte tra i detenuti e il complesso delle cause di morte naturale lo sopravanza di poche decine di unità.
Nelle carceri vi è una diffusa e generalizzata condizione di degrado strutturale e sociale, di cui sovraffollamento e assenza di servizi sono una manifestazione evidente, ma non esaustiva e neppure del tutto rappresentativa, visto che la degradazione della galera, nel concetto del legislatore patriottico, è il giusto sovrapprezzo dell’afflizione penale, quindi non è un’anomalia rimediabile, bensì un complemento necessario del sistema carcerario, come spiegava il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove in orgasmo politico per il soffocamento dei reprobi nei blindati della polizia penitenziaria.
La destra, peraltro, non è la sola responsabile della condizione incivile delle carceri italiane, ma fa per libidine e profitto ciò che altri governi, anche di sinistra, hanno fatto in precedenza per viltà o timore del guadagno altrui: lasciare che la sofferenza dei galeotti dilaghi a misura della sua legittimazione politica, sacrificare la «prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile» della legalizzazione delle carceri, come la definì Giorgio Napolitano nel 2011 da Presidente in carica e la ribadì due anni dopo in un drammatico messaggio alle Camere, al fomento dell’ideologia della galera come sola igiene del mondo e risarcimento espiatorio dell’indignazione popolare.
Il ministro della Giustizia, nel suo passato da tenorino del garantismo convegnistico, ha gorgheggiato pregevolmente anche sulla funzione rieducativa della pena, sulle misure alternative alla detenzione e perfino sui provvedimenti di clemenza, quando il ricavo della sua testimonianza accademica superava il costo del disallineamento politico dallo schieramento, alla cui causa pure continuava a prestare apertamente servizio, come ad esempio sulla legittima difesa o sull’immigrazione.
Nordio mostrava di vedere i problemi della galera e di apprezzare soluzioni invise a destra fino a che questo è servito ad accrescere il suo capitale reputazionale e la sua spendibilità politica. Passato all’incasso con l’ingresso in Via Arenula i suoi divertissement para-pannelliani sulla dignità dei detenuti non avevano più ragione di essere. L’errore di chi vorrebbe ricongiungere il Nordio pre-ministeriale a quello post-ministeriale è di ritenere che il suo garantismo calligrafico abbia ceduto, alla prova dei fatti, a una patologica e colpevole assenza di coraggio e di disciplina.
Invece occorre rassegnarsi al fatto che quella garantista è per l’ex pubblico ministero veneziano una delle maschere carnevalesche di un reazionario di buone letture, che ritiene che la giustizia penale sia solo la continuazione della politica con altri mezzi e dunque che la garanzia dei diritti non possa riguardare i nemici. Donde un’idea galantomistica e discriminatoria del garantismo, applicabile solo a persone di molto rispetto, tra cui sarebbe contraddittorio comprendere i detenuti.
Il Guardasigilli, come tutta la destra italiana senza alcuna eccezione, non pensa affatto che il diritto penale sia un farmaco proprio perché è un veleno e che la pretesa punitiva dello Stato sia di per sé una forma di potere smisurato, eccezionalmente necessario e mai comunque innocuo, da limitare proprio per ragioni di libertà, prima che di giustizia. Pensa, come tutti i reazionari (compresi ovviamente quelli di sinistra), che ognuno debba avere il diritto penale che si merita e che gli immeritevoli stiano tutti nel campo opposto a quello delle persone dabbene, che egli deve rappresentare e difendere. Un diritto penale, diciamo così, modulare, ristretto ed espanso a seconda della diversa rispettabilità dei suoi beneficiari o dei suoi bersagli.
Da quando è arrivato a Via Arenula sono svariate decine i nuovi reati (spesso semplicemente duplicati) e gli aggravi di pena stabiliti da una legislazione penale tanto bulimica, quanto indifferente a quell’etica delle conseguenze che dovrebbe sempre ispirare l’azione di governo, a maggior ragione quando si tratta della libertà e della dignità delle persone. I detenuti sono cresciuti di oltre il dieci per cento (quelli minori addirittura del cinquanta per cento) e sono tornati ai livelli di dodici anni fa, pure a fronte di un numero di delitti denunciati di gran lunga inferiore.
Le uniche garanzie che Nordio considera pertinenti sono quelle relative al target dei presunti meritevoli, non a quello dei sacrificabili a quella teoria del diritto penale d’autore o del nemico che deriva la colpevolezza dalla persona stessa dell’indiziato – il drogato, lo zingaro, l’immigrato, il pregiudicato… – e non dalla prova della sua condotta illecita. Infatti il garantismo di Nordio è a misura del tipo antropologico della destra italiana, chiamiamolo il retequattrista collettivo, per cui la presunzione di innocenza, alla fine, è un diritto dei veri innocenti e non può diventare un privilegio dei veri criminali.
Alla fine sarebbe bene che tutti – a partire dai garantisti apolidi della politica italiana – iniziassero a considerare Nordio per quello che è: non una delusione, per quello che avrebbe potuto essere e fare, ma un equivoco, per quello che è sempre stato e ha sempre fatto, pure come pm, dietro ai camuffamenti dottrinari liberal-garantisti.
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