Perché la guerra non è ineluttabile: “Onu e peacekeeping funzionano”

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Le guerre ormai ci circondano, e ci angosciano, anche se molti le ritengono o giuste o necessarie o entrambe le cose, per esempio la gran parte degli attuali governanti. È diffusa l’idea che la guerra sia parte “naturale” della vicenda umana e che quindi non valga la pena avversarla più di tanto. Ma quante sono (e sono state) le guerre? Chi le fa? E chi le inizia, poi le vince? E davvero le carneficine alle quali stiamo assistendo non possono essere fermate prima che siano arrivate al loro “naturale” compimento? Marcello Flores e Giovanni Gozzini, navigati storici del contemporaneo, per scrivere Perché la guerra (Laterza) si sono impegnati in un’avventura di ricerca poco frequentata in Italia: l’analisi quantitativa delle guerre. Così il loro libro contiene grafici e tabelle, cita dati e repertori statistici, e giunge spesso a conclusioni inattese, o almeno sottovalutate.

Si scopre, per esempio, che la linea di tendenza su scala globale, negli ultimi due secoli, è solo “in leggera salita: le guerre aumentano ma di poco”. Dopo il 1945 i picchi sono stati alimentati quasi esclusivamente da guerre civili interne agli stati (l’invasione russa dell’Ucraina è un’eccezione), per quanto avviare una guerra civile non sia troppo – diciamo così – conveniente, visto che i ribelli vincono in meno di un terzo dei casi (in tutto 263 fra 1816 e 2007 secondo la banca dati di Correlates of Wars), mentre gli stati che iniziano una guerra riescono a prevalere nel 55% dei casi – non moltissimo, a dire il vero.

Si scopre poi che un’affermazione così consolidata da essere considerata una specie di assioma, e cioè che le democrazie fanno meno guerre di altre forme di governo, non è suffragata dai fatti. Flores e Gozzini non mettono sullo stesso piano autocrazie e democrazie, tutt’altro, e precisano che le democrazie sono più riluttanti a scendere in guerra dei regimi autoritari, e tuttavia, scrivono, “la risposta alla domanda se le democrazie fanno meno guerre è negativa, seppure con alcuni importanti distinguo”. Nell’ultimo mezzo secolo, spiegano, le democrazie hanno allargato la loro diffusione nel pianeta (la popolazione che vive sotto regimi autocratici è scesa dal 58% del 1970 al 26% del 2018), ma a questa tendenza “non corrisponde un calo altrettanto inedito e prolungato dei conflitti armati”.

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Un ruolo importante, evidentemente, giocano gli interessi economici. Le guerre sono un enorme business, e i fatti hanno dimostrato quanto fosse concreto il famoso ammonimento del presidente statunitense (in quel momento uscente, era il gennaio 1961) Dwight “Ike“ Eisenhower, ex capo delle forze armate alleate nella seconda guerra mondiale, non certo un militante pacifista: “Dobbiamo guardarci – disse – dalla conquista di un’influenza senza limiti, volontaria o involontaria che sia, del complesso militare-industriale”. Parole ben conosciute ma poco considerate dalle élite politiche, e ancora molto attuali in un mondo che sta correndo verso un nuovo vertiginoso riarmo, quando la storia oltretutto dimostra, scrivono Flores e Gozzini, che “tutto ciò che la spesa bellica può fare per il capitalismo, può essere fatto in modo più efficiente e cone meno contraccolpi dalla spesa sociale, dai tagli alle tasse, dal credito bancario, dall’innovazione”.

Fra tante cifre e tante analisi non proprio incoraggianti, l’aspetto più interessante e più promettente, secondo gli autori, è però un altro: “Dalle nostre ricerche – dice Giovanni Gozzini, che insegna all’Università di Siena – emerge un periodo piuttosto lungo, fra 1991 e 2006, in cui le guerre diminuiscono. È la fase, seguita alla fine della guerra fredda, in cui cala drasticamente il numero dei veti messi al Consiglio di sicurezza dell’Onu e in cui aumentano, di conseguenza, le missioni di peacekeeping gestite dalle Nazioni Unite”. Per Gozzini e Flores è un’indicazione di rotta, “la vera frontiera odierna del pacifismo”. “Questi dati – riprende Gozzini – mostrano che oggi sarebbe necessario riformare l’Onu e attivare quando necessario missioni di peacekeeping, che funzionano, specie quando mirano a far dialogare le parti, senza pretendere si imporre soluzioni precostituite. Il punto di svolta, in negativo, è stata la guerra in Iraq nel 2003, che ruppe il precario equilibrio fra le grandi potenze”.

Sul piano storico spicca anche un altro elemento: “I paesi occidentali nel ’900 non hanno saputo “fare le pace“. Nel 1989, per esempio, con il crollo dell’Urss si è presentata un’occasione storica. Si poteva superare la Nato e puntare su un format già esistente, gli Accordi di Helsinki sulla sicurezza, che includevano, oltre all’Europa e agli Stati Uniti, anche l’Urss. Puntando ancora sulla Nato, escludendo Mosca, si è commesso lo stesso errore compiuto nel 1919 con la Germania. Se avessimo scelto Helsinki, oggi probabilmente non avremmo la guerra in Ucraina”.

Nel buio del presente, insomma, fa capolino la lucina della storia, che indica un’altra verità: “Il mondo – conclude Gozzini – è ormai multipolare, lo dimostrano anche i dati economici col declino del peso degli Stati Uniti, i quali devono capire, insieme agli altri paesi occidentali, che stiamo vivendo un processo epocale e che dobbiamo trovare nuovi equilibri nel pianeta, abbandonando il vecchio modo di pensare”.



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