La donazione di organi in Veneto, i numeri e le storie

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Ci sono doni senza prezzo che, pure, non costano alcunché. E che arricchiscono la memoria tra chi resta, generando vita.

La donazione degli organi è condizione necessaria per dare linfa a quei trapianti fiore all’occhiello del Coordinamento regionale per i trapianti (Crt) che ha sede in Azienda Ospedale Università: qui nei primi 11 mesi dell’anno sono stati 55 i donatori utilizzati, su 73 potenziali, con 13 opposizioni, per un totale di 148 organi a disposizione di seconde occasioni.

Ognuno di loro racconta una storia personale, di vicende familiari ricucite e del desiderio di fare la cosa giusta, andando oltre i vincoli imposti dalla propria religione.

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Dott. Demetrio Pittarello

Ma c’è anche chi dice no: spesso, sono i più giovani. «Tra loro c’è poca sensibilità su questo tema» conferma il dottor Demetrio Pittarello, nuovo coordinatore nonché responsabile tecnico scientifico del Coordinamento regionale dei trapianti e direttore della Terapia Intensiva Cardiochirurgica dell’Azienda «uno dei miei obiettivi è di stimolarli, ad esempio facendoci vedere nelle scuole o agli eventi sportivi, perché sebbene aumentino i trapianti, le liste d’attesa non diminuiscono».

I numeri 

Il Veneto al primo dicembre aveva eseguito quasi 580 trapianti sui 3.963 a livello italiano, subito dietro la Lombardia: «Questa è una regione leader per quanto riguarda il percorso della donazione, quindi parliamo di procurement e di trapianti sia da deceduto che da vivente» spiega Pittarello «e i numeri sono sicuramente positivi anche in relazione al numero delle opposizioni. Queste ultime sono nettamente inferiori rispetto alla media nazionale, con un 18% rispetto al 27% del resto del Paese».

«L’unico dato che merita un po’ di attenzione e su cui dovremmo lavorare è quello delle opposizioni nella fascia di età tra i 18 e i 30 anni dove c’è un aumento dei rifiuti. Certo è un andamento in linea con quello nazionale, ma pensiamo che sia opportuno intervenire anche attraverso un programma di comunicazione. I fattori possono essere diversi» chiarisce «probabilmente ci sono poca consapevolezza e senso di responsabilità in una fascia di età che forse non è mai stata stimolata, laddove i giovani si sentono forti, quasi immortali, e non pensano, erroneamente, che la questione possa riguardarli. Credo che il fatto di coinvolgerli sia una questione fondamentale su cui lavorare per il prossimo futuro. Dobbiamo spingere anche sugli operatori sanitari, poiché ci sono alcuni settori che più di altri meritano una costante informazione per rendere possibile il programma di donazione. Ricordo che il trapianto è un’attività aggiuntiva che viene fatta rispetto al lavoro di ciascuno, né dobbiamo dimenticare che senza la generosità delle famiglie e di coloro che si rendono disponibili non ci sarebbe donazione: è a loro che dobbiamo tutto».

Più organi, liste invariate

Le nuove tecnologie hanno dato un grande impulso all’innalzamento dell’età della donazione: se una volta i 50-60 anni erano ritenuti il limite massimo per considerare un organo espiantabile, «l’anno scorso abbiamo avuto un donatore di fegato 92enne a cuore fermo, a dimostrazione del fatto che, sebbene questo sia un organo molto complesso, consente comunque di utilizzarlo anche età avanzata» rivela il coordinatore del Crt.

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Il Policlinico universitario di Padova

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Il ricevente sta bene. A determinare la possibilità di un paziente di ricevere un organo, non sono solo le sue condizioni fisiche, ma anche quelle mentali: «Il trapianto immette su una strada senza ritorno, poiché significa controlli periodici e terapie quotidiane» prosegue Pittarello «pertanto una fragilità psicologica non può essere trascurata perché rende ad alto rischio. È molto raro ma abbiamo avuto un malato che a un certo punto ha rifiutato la terapia, ha avuto un rigetto ed è morto».

Rinunciare” a un organo è un lusso insostenibile a fronte di liste d’attesa ad oggi impossibili da abbattere: «Nonostante l’aumento dei trapianti, il numero dei malati in attesa di organo rimane invariato» rivela il coordinatore del Centro trapianti «questo per una serie di motivi, tra cui il fatto che sono cambiati i criteri di accesso alle liste, a partire dall’età. Ecco perché dobbiamo cogliere l’attenzione di chi può andare incontro a possibile donazione».

Vite che cambiano

Quello dei trapianti è un mondo estremamente complesso, con interventi che spesso iniziano di notte «per evitare di far slittare l’attività ordinaria, cosa che non sempre riesce», in cui non mancano difficoltà invalicabili – ad esempio un’indagine della magistratura –, pressioni – a partire dalle minacce, soprattutto durante la pandemia da ambienti negazionisti –, ma con la consapevolezza di poter fare ogni giorno la differenza tra la vita e la morte: «I genitori dei bambini destinati ad andarsene, malgrado siano devastati, tendono a dimostrare grande disponibilità alla donazione» prosegue Pittarello «diversamente, a volte incontriamo una certa rigidità da parte di esponenti di altre religioni, soprattutto quelle che prevedono la reincarnazione, per cui il corpo deve essere rispettato» prosegue «eppure parlando, siamo riusciti a convincere dell’opportunità di salvare una vita.

È successo con una signora che ha dato disponibilità alla donazione per il compagno malgrado i parenti dell’uomo fossero contrari, per motivi religiosi. Hanno comunque rispettato la sua decisione».

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Ma talvolta, di fronte all’ineluttabilità della morte, la vita interviene aggiustando quello che si può: «Ricordo il caso di una persona anziana, i cui figli non si parlavano da decenni» conclude «ma toccava a loro decidere per il genitore. Il problema non era tanto una posizione diversa rispetto al tema della donazione, ma il rapporto personale che c’era tra i due, per cui abbiamo cominciato con colloqui separati e siamo riusciti a ricomporre la frattura. Alla fine ci hanno ringraziati». 

La storia

Per riprendersi il futuro ha seguito le tracce lasciate dalla storia, percorrendo una strada che l’ha portata fino a Padova, al Centro Gallucci dell’Azienda Ospedale Università. È qui che i cardiochirurghi dell’equipe diretta dal professor Gino Gerosa hanno scritto e riscritto la storia di Claudia Mariani, 37 anni, determinati a regalarle un lieto fine.

«Quello che mi ha stupita e rapita è il modo in cui sono stata presa sottobraccio» racconta nel giorno della – seconda – dimissione «anche nei momenti più difficili mi dicevano “noi non ti molliamo, ne verremo fuori”. Con dei medici così, ti senti parte di una squadra che rema tutta nella stessa direzione. E questo ti aiuta a non mollare».

Claudia Mariani di 37 anni

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Claudia, che di professione fa l’infermiera in un grande ospedale milanese – ha lavorato a lungo in Cardiologia – al momento di intraprendere la strada del trapianto di cuore, non ha avuto dubbi: «Sapevo che era un centro di eccellenza» racconta «il mio stesso cardiologo mi ha consigliato di venire qui, “vai dove hanno cominciato” mi ha detto».

Quello con il tavolo operatorio era un appuntamento con il destino scritto fin dalla nascita: «Sono nata con una cardiopatia congenita e, fino a quando ho potuto, ho seguito delle terapie che mi hanno consentito una vita abbastanza normale» racconta «ma ero consapevole che prima o poi sarebbe arrivato il tempo del trapianto».

Quel momento si presenta il 23 gennaio: «Ho preso il Covid» racconta «5 giorni di mal di gola e, improvvisamente, non riuscivo più a fare un piano di scale». Il verdetto dello specialista è perentorio: è il momento. Iniziano le visite che aprono la porta della lista d’attesa: è il 7 marzo.

«Ormai avevo acquistato la carrozzina per uscire perché non potevo più muovermi fuori casa» prosegue Claudia con il sorriso nell’anima «ma sono stata fortunata e quattro giorni dopo è arrivata una telefonata dal dottor Giuseppe Toscano che mi diceva “potrei avere qualcosa per te, fai un respiro profondo, chiama un’ambulanza e vieni a Padova, io intanto vado a prendere il tuo cuore”. Non lo avevo mai incontrato, eppure ho capito che era pronto a lottare per me. Lui e il dottor Nicola Pradegan mi hanno cambiato la vita».

Quindi l’arrivo a Padova, l’ingresso in sala operatoria e il risveglio su una nuova vita: «Qualche tempo dopo ho scritto una lettera alla famiglia del donatore per ringraziarla» racconta «si affida al Centro trapianti che valuta se le persone coinvolte nella donazione sono pronte ad accogliere il messaggio del ricevente».

Dopo l’operazione 

Uno sguardo alla nuova normalità – dopo i sacrifici della famiglia e del compagno che a lungo hanno vissuto in albergo per starle vicino – ma il destino non ha ancora finito con Claudia: «A metà ottobre ricomincio a stare male» prosegue «ho avuto un rigetto, probabilmente dovuto al fatto di aver sviluppato un sistema immunitario molto forte. Dopo 30 anni di fatiche ho pensato: ecco, mi sono giocata anche l’unica possibilità che avevo, non c’è più nulla da fare, lasciatemi morire».

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Ma non doveva finire così: «Sono tornata a Padova arrabbiata, a volte ero di malumore» prosegue «eppure nessuno si è mai scomposto di fronte a certe mie reazioni. Mi dicevano: vedrai che ne usciamo. In quelle situazioni, se non hai qualcuno che ti dà speranza, da solo non ce la puoi fare. Sono scienziati, quindi sono sempre stati molto onesti con me, ma erano ugualmente concentrati sull’obiettivo» racconta ancora di getto «mi sono sentita come se i miei due angeli, Toscano e Pradegan, dovessero salvare una di famiglia, come se mi conoscessero da sempre. La mia volontà, la mia opinione sono sempre state tenute in considerazione e questo fa la differenza» aggiunge «lo stesso atteggiamento vale per tutto il reparto, dagli infermieri agli Oss: non ho mai visto un’umanità di questo tipo».

Quindi la somministrazione di un nuovo farmaco di grande efficacia e la seconda dimissione. Ora è il tempo dei controlli, ma accanto ai selfie in reparto, sono spuntati quelli in città: uno di loro la ritrae in Prato della Valle. Senza mascherina e con il sorriso rivolto verso un nuovo inizio.



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