Il Consiglio d’Europa ha chiesto di usare le potenzialità dell’IA per tutelare i diritti dei detenuti. Ma gli strumenti oggi in uso in tutto il mondo sollevano ancora dubbi, mentre in Italia l’intero sistema si mostra tendenzialmente «resistente a questo tipo di innovazioni»
Sfruttare le potenzialità dell’intelligenza artificiale per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere e tutelare i diritti dei detenuti, a cominciare dalla privacy. È questo il contenuto della Raccomandazione elaborata dal Consiglio d’Europa sui risvolti etici degli ultimi ritrovati tecnologici all’interno del sistema penitenziario. Partendo dall’assunto che «la raccolta di dati biometrici e l’uso di algoritmi da parte del sistema di giustizia penale stanno avanzando a grande velocità in Europa, acquisendo sempre più importanza in tutte le fasi e in ogni settore del sistema di giustizia penale». Per questo, pur non avendo carattere vincolante, il Consiglio ha acceso una lampadina a livello internazionale sul tema.
Il dibattito europeo sull’uso dell’IA in carcere si è sviluppato a partire dal 2019, soprattutto sulle potenzialità dei nuovi strumenti per il monitoraggio dei reati e il calcolo della recidività in termini predittivi. La ricercatrice di Antigone Rachele Stroppa ha spiegato che «l’utilizzo dell’IA in ambito penitenziario vive una tensione costante con il principio di normalità: essendo al centro del dibattito nella società libera, è giusto ragionare anche sulle sue possibili applicazioni in carcere».
La questione, però, non sta nel quanto se ne parla, piuttosto nel come: «Parlare di IA apre a una serie di rischi, discriminazioni e possibili violazioni dei diritti di chi è privato della libertà, amplificate dal carcere rispetto alla sfera della società libera. Tanto per cominciare, si potrebbe ragionare sui possibili utilizzi rispetto alla formazione professionale del personale e dei detenuti oppure in ambito medico, per potenziare i servizi di telemedicina».
I dubbi
Pur rimanendo il più delle volte un tabù, l’uso delle tecnologie in carcere ha registrato un incremento a partire dalla pandemia, con l’introduzione graduale delle videochiamate tra detenuti e familiari. Mentre in Italia la digitalizzazione all’interno degli istituti di pena è ancora in fase embrionale pur con alcuni progetti pilota, l’intero sistema si mostra tendenzialmente «resistente a questo tipo di innovazioni», mentre in Europa gli esempi non mancano.
È il caso del software RisCanvi, un algoritmo utilizzato in Catalogna per determinare il rischio di recidiva dei detenuti attraverso il calcolo di un rate a partire da un’ampia serie di informazioni. «L’uso di questo sistema può impattare direttamente sulla situazione della persona detenuta, che in base al valore di RisCanvi potrà vedersi collocata in un regime più duro o faticare per accedere a una serie di benefici», sottolinea Stroppa.
Il software elabora diverse informazioni sotto forma di dati “statici”, che non potranno cioè mai essere modificati dal soggetto a cui si riferiscono. Da qui, secondo la ricercatrice di Antigone, possono derivare problemi di natura etica: «Il fatto che una persona detenuta sia cresciuta in un ambiente marginalizzato o abbia avuto precedenti penali finisce per innescare, il più delle volte, una sorta di automatismo che implica la probabilità che questo tipo di condotte vengano replicate».
A rischio, dunque, la riabilitazione stessa dei detenuti, che invece dovrebbe rappresentare l’obiettivo finale del sistema penitenziario, ma anche la privacy all’interno del carcere. Chi ha accesso a questi dati, per quanto tempo vengono conservati e chi riguardano, oltre ai detenuti stessi? Per questo l’utilizzo dell’IA nel contesto carcerario rappresenti ancora una sfida a tratti inedita, e l’incombere di bias pregiudiziali potrebbe mettere a repentaglio, piuttosto che tutelare, la dignità e i diritti umani.
L’uso all’estero
Intanto, sparsi per il mondo, non mancano esempi di hardware che sfruttano l’IA per stringere le maglie del controllo sulla popolazione carceraria, dagli Stati Uniti fino in Cina e in Corea del Sud, dove la supervisione dei detenuti è affidata a guardie robot.
«Il sistema utilizzato in Catalogna è un algoritmo, ma pochi mesi fa è stata presentata la proposta di dotarsi di strumenti fisici per individuare i detenuti potenzialmente più pericolosi e analizzare così le zone più critiche negli istituti: l’idea non è andata in porto, ma la sensazione è che l’attuazione sia solo rimandata», continua Stroppa. Che poi conclude: «Prevedere una digitalizzazione del mondo penitenziario a tutto tondo credo possa essere la chiave per accogliere un possibile utilizzo dell’intelligenza artificiale in carcere, il cui obiettivo rimane quello di ridurre la distanza tra il dentro e il fuori tutelando la dignità e favorendo il reinserimento in società delle persone».
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