Infermieri in carcere. Succu: “Abbiamo davanti persone da curare. E basta”

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La presidente della cooperativa sociale racconta la sua esperienza e il suo lavoro negli istituti penitenziari toscani

(Foto ANSA/SIR)

Mariaflora Succu è una donna che sprizza energia e determinazione da tutti i pori. È anche e soprattutto un’infermiera che ama e crede nel suo lavoro che svolge senza alcuna remora anche con i detenuti, pazienti che come tutti noi hanno il diritto alla salute, qualsiasi sia il motivo per cui sono in carcere. Ci racconta il suo lavoro nelle carceri toscane sottolineando l’importanza, spesso misconosciuta, della professione infermieristica in determinati contesti, spesso critici e complessi. Succu è presidente della cooperativa sociale Libera che fa parte della rete Almarei. La cooperativa è capofila, insieme allo studio Auxilium e a Sogesi, di un appalto per l’erogazione di servizi in alcuni istituti penitenziali. Gli istituti di cui si occupano le varie realtà raggruppate in un unico appalto sono Sollicciano, l’istituto Gozzini a custodia attenuata dove si trovano i detenuti lavoranti, chiamato “Solliccianino”, il Meucci per minori, la casa circondariale la Dogaia di Prato, la casa circondariale Santa Caterina di Pistoia. Gli infermieri occupati sono circa una sessantina tra le province di Firenze, Prato e Pistoia. La copertura del servizio è giornaliera per 365 giorni, anche H24. A Dogaia, ad esempio, la copertura notturna la fa un solo infermiere con il medico di guardia, a Sollicciano invece ce ne sono due: un infermiere nel settore maschile e uno nel settore femminile, mentre al Meucci e Santa Caterina il servizio è solo diurno. I detenuti seguiti dagli infermieri sono circa 1.500.

Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono il vostro lavoro negli istituti di pena?

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Siamo degli infermieri. Quindi cosa ci portiamo dietro? Un pacchetto che è etico deontologico, insito nel Dna della professione e che noi applichiamo a qualsiasi tipo di attività che andiamo a fare. Questo è fondamentale perché al di là dell’appartenere a un credo religioso, o anche a nessuno, nel Dna della nostra professione c’è il rispetto della persona in quanto tale, indipendentemente dal motivo per cui giunge alla nostra attenzione. Noi non curiamo il detenuto in base a quello che può aver fatto o meno, e anche se casualmente veniamo a sapere il reato per cui è stato condannato, non cambia niente, perché noi siamo lì in quanto ci sono persone che hanno bisogno di noi. L’etica e la deontologia professionale sono i cardini che muovono le nostre organizzazioni. Noi ci troviamo sempre in una posizione di garanzia nei confronti delle persone che abbiamo davanti, ci muoviamo a tutela della persona in ogni fase dell’assistenza rispettando il diritto alla salute, sempre e comunque, per noi l’articolo 32 della Costituzione è un mantra. Il diritto alla salute è indipendente da condizioni sociali, etniche, religiose, di orientamento sessuale. Noi abbiamo davanti la persona da curare. E basta.

Quali sono le figure professionali che ruotano intorno al detenuto?

Le figure sono diverse, tra queste troviamo la polizia penitenziaria a tutela della sicurezza del detenuto e non solo, praticamente per la sicurezza dell’intero sistema, quindi sia dei detenuti che di tutti coloro che per qualsiasi motivo si trovano nell’istituto di pena. Poi ci sono gli psicologi, i medici, in alcuni contesti gli educatori, gli insegnanti. E ci siamo noi infermieri che operiamo per la tutela della salute su mandato dell’Asl.

Dal punto di vista sanitario, cosa accade quando un detenuto entra in un istituto di pena?

Viene inquadrato dal punto di vista infermieristico e medico e lì si vedono i farmaci che prende, può capitare che il medico che lo accoglie non sia d’accordo con la terapia e il trattamento, perciò, magari la rivede.

Gli infermieri come intervengono?

Gli infermieri si occupano dell’assistenza infermieristica nel complesso, quindi somministrano i farmaci, effettuano medicazioni, altre prestazioni sanitarie, fanno educazione sanitaria. Quando necessario, intervengono nelle urgenze, che possono essere di ogni genere, dall’infarto al tentativo di suicidio, non prima dell’accertamento da parte della polizia penitenziaria della sicurezza dello scenario. Se necessario si eseguono manovre rianimatorie in attesa del soccorso del 118 e in collaborazione con il medico di guardia.

Cosa vorrebbe cambiare nel paradigma carcerario?

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Nel paradigma del carcere non basta dire vi garantiamo la socialità, bisogna dare un obiettivo, uno scopo, il detenuto va accolto in un ambiente che è confinato, ma che può offrire l’opportunità di un lavoro, opportunità limitatissima perché i detenuti lavoranti sono pochissimi, perciò andrebbe investito di più a livello economico. Esistono realtà virtuose in altri Paesi dove le persone detenute lavorano in laboratori, producono, vendono ed escono con un mestiere in mano. Ecco vorrei vedere questo: che evolvesse il concetto di carcerazione in Italia e diventasse davvero rieducativa, riabilitativa e di inclusione sociale, quindi aiutare il detenuto a non tornare a delinquere. Infatti in quei Paesi la recidiva è bassissima.

Ma gli italiani non credono nella riabilitazione…

Non ci credono per tanti motivi, la gente vuole vedere la punizione, però dobbiamo pensare che le nostre carceri non sono piene di persone come Filippo Turetta, lui è l’eccezione, sono piene di poveri disgraziati che sono caduti nella rete del piccolo spaccio, nella rete della truffetta, nel furtarello ripetuto.

C’è chi aggiungerebbe che questi poveri disgraziati, se sono stranieri, dovrebbero tornare a casa loro.

Se è per questo ci sono anche tanti italiani che fanno queste cose, non è un problema di nazionalità. Noi accogliamo queste persone straniere, ma poi le abbandoniamo, non perché manchi il lavoro per loro, ma perché li mettiamo in mano a dei caporali. E non dimentichiamo la burocrazia! È complicatissimo arrivare da un Paese straniero e districarsi nella nostra burocrazia. È l’ambiente in cui vivi, per stranieri e italiani, a spingerti a fare o non fare certe scelte, in base alle opportunità che ti offre. L’ambiente ti rende ostile, perché devi lottare per avere qualsiasi cosa. E questo ti rende arrogante.

Lei entra nelle carceri abbastanza spesso per lavorare, ma se dovesse entrarci come detenuta cosa la colpirebbe di più?

Non oso pensarci. Nel settore delle donne, quelle poche che ci sono sono tostissime. Comunque, quello che più mi farebbe male è innanzitutto la separazione, cioè quel limbo di tempo da quando entri dentro a quando riesci a parlare con qualcuno che ti spiegherà cosa è successo. L’altra cosa che mi colpirebbe è lo squallore dei luoghi fisici, perché l’ambiente, come diceva Florence Nightingale, ha un’influenza fondamentale nella salute delle persone. Se una come me, che oggi prende soltanto una pastiglia per la pressione e un integratore vitaminico, si trovasse a entrare in carcere, sicuramente il giorno dopo il suo arrivo nell’istituto di pena sarebbe imbottita di psicofarmaci che servirebbero a resistere in un mondo di quel tipo, soprattutto per l’assoluto abbandono a cui sei soggetto e lo squallore degli ambienti. Quindi uno entra che non prende psicofarmaci e esce che invece li prende, perché ha dovuto sopravvivere lì dentro.

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Ha mai avuto un momento in cui ha provato panico in carcere, magari con un detenuto?

No. Ho un carattere ben strutturato, sono rimasta orfana di madre a 11 anni e mio padre si è perso nel suo dolore lasciandomi a gestire la mia vita, perciò ho dovuto cavarmela fin da ragazza, quindi sono serena anche nelle situazioni più critiche. Il mio comportamento quando entro dentro in carcere e incontro i detenuti nei corridoi, magari 20 detenuti e un solo agente che li accompagna, è ispirato sempre alla massima cortesia. Li saluto, li guardo in faccia e se mi devono dire qualcosa li ascolto, magari rispondo che non posso fare nulla per loro e li indirizzo altrove, però sono sempre disponibile. È questa la chiave per non dare adito a intemperanze. È chiaro che poi c’è quello agitato, quello con il tratto psichiatrico che se lo incontri nel momento sbagliato sono guai, ma a me fortunatamente non è capitato, a qualche mio collega purtroppo sì, e questo ultimamente accade sempre più spesso, c’è un reale problema di sicurezza per il personale sanitario e non solo.

Quanto è difficile il vostro lavoro in questi contesti?

È molto difficile perché devi avere un po’ di pelo sullo stomaco, devi essere in grado di lavorare in un ambiente che comunque è brutto anche per te lavoratore, essere capace di triangolare su diverse posizioni, la Asl che è il nostro appaltatore, la polizia penitenziaria che ha altri obiettivi a volte in contrasto con quelli sanitari, è insomma un gioco in cui bisogna destreggiarsi.

Ha un ricordo bello, malgrado tutto?

Sì, c’è stata una manifestazione teatrale dentro un’iniziativa e quello è stato un bel momento di condivisione. Purtroppo però anche in queste situazioni di condivisione, la tutela della sicurezza richiede separazione e questo è un grande limite. Ricordo l’esperienza che ho fatto a Regina Coeli tanti anni fa, noi infermieri avevamo il divieto di rapportarci, anche solo verbalmente, con i detenuti. Si somministrava la terapia e basta, senza parlare. Questo è sintomo di una cosa che non ho detto: ogni istituto di pena è un regno a sé, perché ogni direttore di carcere utilizza la sua leadership, segue le leggi comuni che sono le linee guida, ma vi inserisce la sua discrezionalità e l’istituto di pena si deve adeguare. A Rebibbia, faccio un altro esempio, ai tempi del direttore Mariani c’era “Rock in Rebibbia” che è andato persino in televisione e invece c’è chi va in tv solo perché c’è stata una rivolta.

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C’è qualche altra cosa che vuole aggiungere?

Sì, una cosa che riguarda la nostra professione. Va data maggiore visibilità all’infermieristica penitenziaria a livello nazionale, recentemente la nostra federazione ha organizzato un bellissimo evento con il carcere di Bollate per sottolineare questo ambito della nostra professione, ma ci vorrebbero altri esempi virtuosi a seguire, perché i nostri infermieri si sentono abbandonati. La branca dell’infermieristica penitenziaria è lasciata un po’ a se stessa, invece va valorizzata.

(Pubblicato precedentemente su Toscana Oggi)





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