Non persuade il riconoscimento del debito connesso ad un contratto inesistente o nullo

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L’affermazione secondo cui presupposto della regolarizzazione contabile non è la sussistenza di un preesistente rapporto obbligatorio, bensì l’arricchimento per l’ente, sicchè il riconoscimento del debito fonda il rapporto obbligatorio in capo all’amministrazione appare poco condivisibile.

L’intera ricostruzione proposta dal parere della Corte dei conti, Sezione Piemonte, 179/2024 risulta piuttosto debole e irta di contraddizioni insanabili.

L’articolo 191, comma 4, del d.lgs 267/2000 ha lo scopo chiarissimo di estromettere l’ente locale da qualsiasi rapporto col privato, che abbia eseguito prestazioni senza contratto e su ordini o indicazioni ricevute da amministratori o funzionari, non sorrette da preventivo impegno di spesa e connessa sottoscrizione del contratto. Tale barriera nella relazione giuridica ed economica tra ente locale e soggetto che realizza la prestazione, non priva, però, quest’ultimo di tutele, in quanto nasce ex lege un rapporto obbligatorio intercorrente tra detto prestatore e non più l’ente, bensì tra amministratore o funzionario che abbia ordinato o consentito la prestazione. Il prestatore, quindi, può rivolgersi a tali soggetti per pretendere il pagamento della prestazione svolta, anche in giudizio. Il che implica, per effetto della sussidiarietà dell’azione di arricchimento senza causa, disposta dall’articolo 2042 del codice civile, che il prestatore non ha possibilità di ottenere la condanna al ristoro per arricchimento all’ente locale, posto che ha azione diretta nei confronti dell’amministratore o del funzionario, sicchè l’azione per arricchimento deve considerarsi preclusa.

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Laddove manchi il contratto tra ente locale e fornitore, il rapporto obbligatorio tra ente e fornitore stesso non può mai considerarsi insorto, per nullità del contratto, visto che occorre necessariamente la forma scritta. Non solo, non si deve dimenticare quanto prevede l’articolo 191, comma 1, ultimi due periodi, del d.lgs 267/2000: 

  • La comunicazione dell’avvenuto impegno e della relativa copertura finanziaria, riguardanti le somministrazioni, le forniture e le prestazioni professionali, è effettuata contestualmente all’ordinazione della prestazione con l’avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione”. 
  • Fermo restando quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati”.

Il prestatore, dunque, deve ex lege verificare se l’ordine di svolgere la prestazione richiami l’indicazione dell’impegno della spesa, poichè ha l’obbligo di specificare tale dato quando elabora la fattura. E proprio perchè ordinazioni prive di queste indicazioni possono far scattare il meccanismo di esclusione dell’ente dal rapporto obbligatorio e sostituzione legale come debitori del soggetto che effettua l’ordinazione in assenza della regolare disciplina giuscontabile, il prestatore ha la facoltà anche di non eseguire la prestazione, allo scopo di accertarsi che l’intero processo contabile sia correttamente gestito e costituito. E tale processo richiede necessariamente la sottoscrizione di un contratto in forma scritta, poichè è solo il contratto il titolo giuridico dal quale discende la costituzione dell’obbligazione in capo all’ente locale.

Pertanto, qualora l’ente intervenga con riconoscimento del debito in consiglio, pur con tutte le cautele indicate dalla Sezione Piemonte, finisce per intromettersi in un rapporto obbligatorio dal quale è escluso ex lege, e nei fatti si qualifica come soggetto che si avvantaggi della diminuzione patrimoniale subita dal prestatore, qualificandosi come soggetto che si sia arricchito senza giusta causa, vanificando, così le previsioni del comma 4 dell’articolo 191 del Tuel.

Consapevole di quanto ardita e in bilico sia la propria delibera, la Sezione Piemonte afferma che il consiglio, per riconoscere il debito fuori bilancio in assenza di contratto, dovrebbe controllare se l’acquisizione di beni e servizi al di fuori delle ordinarie procedure di spesa sia dipesa e supportata da una ragione legittima. Ma: come può considerarsi legittima la violazione della disciplina ex lege e cogente di acquisizione della spesa? Non risulta chiaro che la previsione dell’articolo 191, comma 4, è un rimedio tipico, generale ed obbligatorio proprio pensato perchè ha come presupposto l’illegittimità dell’azione amministrativa?

La Sezione pare voler introdurre ipotesi di legittimità della violazione di legge, rimettendo al consiglio comunale una probatio diabolica, contentandosi che però tale violazione sia occasionale e non ricorrente. Ma, l’illegittimità della spesa connessa ad un rapporto obbligatorio mai insorto per inesistenza o nullità del contratto non dipende da quante volte l’ente vìoli le norme: ogni singola violazione, anche isolata, fa scattare i rimedi posti ex lege.

La Sezione Piemonte ricorda, poichè concorda con esso, l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “a prescindere dalla validità dell’obbligazione sottostante il riconoscimento, l’ente locale sarebbe comunque esposto sia all’azione diretta di arricchimento senza causa (artt. 2041 e 2042 c.c.) da parte del dipendente/amministratore che abbia corrisposto al privato il prezzo della prestazione o della fornitura, sia in via surrogatoria all’azione di indebito arricchimento del privato contraente, ove il patrimonio del dipendente/amministratore non offrisse adeguata garanzia”.

Si tratta, tuttavia, di un filone teorico da respingere, perchè fondato su ipotesi totalmente astratte e non sorrette da effettività.

Infatti, l’idea di partenza è che il comune, anche se l’articolo 194 sostituisce come debitore dell’imprenditore all’ente l’amministratore o il funzionario incauto, potrebbe comunque essere destinatario dell’azione di arricchimento senza causa da parte di tale amministratore o funzionario.

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Ma, come espone poco dopo la stessa Sezione, il tratto caratterizzante dell’articolo 194 “sta nel prevedere “un rapporto contrattuale che sussiste esclusivamente tra il terzo contraente e il funzionario (o l’amministratore)” che ha autorizzato/ordinato l’acquisto, verificandosi una vera e propria scissione del rapporto di immedesimazione organica tra agente e pubblica amministrazione”.

Poichè si verifica questa scissione di immedesimazione organica, non esiste alcuna relazione giuridica tra amministratore o funzionario incauto, tale da giustificare l’attivazione di un’azione di arricchimento senza causa nei confronti della PA. Infatti, il disequilibrio economico derivante da una prestazione effettuata dall’appaltatore senza una valida formazione del titolo giuscontabile riguarda esclusivamente la posizione di tale soggetto. Qualora esso ottenga dall’amministratore o funzionario responsabile il pagamento o il risarcimento del danno, l’equilibrato assetto economico è ripristinato integralmente, poichè non poteva che essere il patrimonio dell’amministratore o funzionario incauto la fonte di finanziamento del credito dell’appaltatore.

E poichè l’amministratore o funzionario ha incautamente, anzi, illegittimamente ordinato o assentito la prestazione, ha agito tradendo il rapporto di fiducia che lo lega alla PA alla quale appartiene. E’, quindi, semplicemente infondato, oltre che insensato sul piano economico e giuridico, ipotizzare una sorta di azione per illecito arricchimento “di secondo grado” a favore dell’amministratore o funzionario incauto: tanto varrebbe, allora, ammettere l’azione diretta dell’appaltatore. Che però l’articolo 194 impedisce. 

Osserva, ancora, la Sezione che l’articolo 194, comma 1, lettera e), del Tuel non dispone nulla circa la necessità di una valida costituzione del titolo di acquisto. Anzi, “l’utilizzo nella norma del termine ‘acquisizioni’, senza ulteriori specificazioni, induce a ritenere riconoscibili, in linea teorica e in disparte le più articolate valutazioni di merito e di quantificazione demandate al Consiglio, gli acquisti di beni e servizi che, a prescindere dalla validità del rapporto obbligatorio sottostante per l’ente locale, siano ritenuti pertinenti, utili e vantaggiosi per l’ente e la sua comunità

Il ragionamento non regge, perchè nella sostanza, come rilevato sopra, fa del consiglio comunale un soggetto al quale si demanda di valutare se un’acquisizione illegittima sia considerabile comunque legittima o quanto meno legittimamente fonte dell’assunzione di obbligazioni finanziari.

La Sezione aggiunge che “Del resto, l’unico rapporto obbligatorio contemplato nella procedura in esame è quello, disciplinato dall’art. 191, c. 4, TUEL, che intercorre «ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell’art. 194, c.1, lett. e)», tra chi ha consentito la fornitura/prestazione e il terzo contraente”.

Vero è che, come specifica la Sezione, “L’estraneità dell’Ente al rapporto obbligatorio comporta che eventuali invalidità del rapporto medesimo sono irrilevanti ai fini del riconoscimento ex art. 194, c. 1, lett. e) TUEL, procedura che non sana l’illegittima acquisizione del bene o servizio, non produce gli effetti negoziali del titolo mancante (determina a contrarre, provvedimento di affidamento, stipula del contratto in forma scritta) e non convalida il contratto nullo”. Altrettanto incontestabile, però, è che il riconoscimento di un rapporto privo di fonte fa assumere alla PA un debito nei limiti dell’arricchimento, consentendo in via di fatto i medesimi effetti dell’azione di arricchimento senza causa che non sarebbe ammissibile in via diretta.

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Debole è anche l’idea che l’appaltatore potrebbe comunque rivolgersi alla PA, per chiedere l’arricchimento senza causa, qualora il patrimonio dell’amministratore o funzionario non siano sufficientemente capienti per ottenere soddisfazione del proprio credito.

La possibilità per il privato di rivolgersi alla PA non si regge sulla disciplina degli articoli 2041 e 2042 relativi all’arricchimento senza causa, ma, semmai sulla previsione dell’articolo 28 della Costituzione: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”. E l’azione contro la PA sarebbe più propriamente da qualificare come risarcimento per responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.

Tuttavia, tanto all’imprenditore, quanto all’amministratore o funzionario che abbia senza titolo ordinato la prestazione non potrebbe consentirsi di chiamare in causa validamente la PA, invocando l’articolo 28 della Costituzione, per la semplice ragione che esso affianca la responsabilità dell’amministrazione a quella degli agenti pubblici sul presupposto che questi compiano attività giuridicamente riferibili all’ente stesso (Cass., 31 maggio 2005, n. 11597). Ma, l’articolo 194 assolve esattamente allo scopo di riferire gli atti di ordinazione di prestazioni non rispettosi delle regole contabili e civili non alla PA, ma direttamente alla sfera giuridica dell’amministratore o funzionario incauto.

Dunque, l’assenza del contratto costituisce vizio a ben vedere insanabile, al quale non può porre rimedio nemmeno la motivazione particolarmente profonda evocata dalla Sezione a fondamento della deliberazione consiliare di riconoscimento del debito fuori bilancio.

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