Elon Musk si è comprato, via Trump, la democrazia americana. Non per governarla, ma per distruggerla nel nome del mercato. Riuscirà nell’impresa?

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La democrazia in America? “Definitely the best money can buy”, definitivamente la migliore che si può comprare con denaro. Così recitava un’antica freddura di chiara ispirazione anticapitalista. Recitava, al passato imperfetto, perché a quanto pare la transazione – fino a ieri considerata soltanto una sarcastica metafora dell’intrinseca venalità del sistema – si è infine materialmente conclusa.

La democrazia americana, la più antica del mondo ed anche – tornando all’irridente astrazione di cui sopra – la migliore disponibile sul mercato, è stata infine davvero comprata. E comprata, batterie incluse, al molto stracciato prezzo di 277 milioni di dollari. Un vero e proprio saldo di fine stagione se si pensa che, solo un paio d’anni fa, il compratore, Elon Musk – l’imprenditore auto-spazial-tecnologico che la rivista Forbes considera l’uomo più ricco del pianeta – aveva dovuto sborsare sedici volte tanto (44 miliardi di dollari) per impossessarsi di Twitter, il famoso social dell’uccellino, da lui ribattezzato “X” e brutalmente trasformato, nel nome della libertà d’espressione, in uno strumento di personale propaganda.

Quanto costa la Casa Bianca

Elon Musk e X. Foto di Algi Febri Sugita/ZUMA Press Wire

Duecentosettantasette e uno, duecentosettantasette e due, duecentosettantasette e tre. Aggiudicata! La democrazia americana ha, dallo scorso 5 novembre, giorno della vittoria di Donald Trump, un nuovo proprietario (e non si può escludere che, come già accaduto a Twitter, possa presto avere anche un nuovo nome). O, almeno, di questo sembra assolutamente convinto Elon Musk che, come indiscusso padrone del tutto ha cominciato a muoversi già oggi, ancor prima che il venditore e garante del prodotto – Donald Trump, presidente eletto, anzi, rieletto ed ancora, almeno formalmente, co-gestore di quella che un’obsoleta versione del liberalismo considerava esclusiva proprietà del popolo – abbia messo, o meglio, rimesso piede alla Casa Bianca.

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Le cronache sono note. Nel corso della campagna elettorale, Elon Musk ha finanziato a piene mani Donald Trump, tanto con molto generosi pagamenti via PAC (Political Action Committee), quanto mobilitando truppe al suo diretto comando – vere e proprie squadre d’azione – in una serrata propaganda porta a porta (il cosiddetto “ground game”) in tutti i più delicati punti della mappa elettorale Usa (i cosiddetti “battleground States”, o Stati in bilico, nei quali, nella sempre più squinternata logica dei collegi elettorali, davvero si decidono, negli Usa, i destini della corsa presidenziale). Il tutto spettacolarmente arricchito da quotidiane riffe milionarie.

Ricordate Achille Lauro?

Per l’appunto, un milione tondo-tondo di dollari da estrarre giornalmente tra tutti coloro che, in quelle decisive zone, su suo invito si fossero, in prossimità del giorno delle elezioni, registrati per votare (e se la cosa in voi risveglia memorie dei metodi di propaganda elettorale usati nella Napoli del dopoguerra dal molto monarchico comandate e sindaco Achille Lauro, siete sulla buona strada per comprendere la più profonda natura d’un fenomeno che, storicamente tutt’altro che inedito, s’appresta ora, esponenzialmente moltiplicato, a varcare nuove frontiere nel più ricco e potente paese del pianeta).

Già nella fase finale della campagna Elon Musk era diventato, al lato di Donald, una presenza tanto costante e visibile che molto difficile era capire chi dei due, in effetti, fosse l’ombra dell’altro. Da Trump benevolmente insignito, ancor prima della vittoria elettorale, del nobiliare titolo di “the first buddy”, primo compare, Elon Musk ha dal nuovo sovrano ricevuto – in coppia con Vivek Ramaswami, un altro manager tecnologico buttatosi in politica (ha partecipato senza successo alle primarie repubblicane) – l’informale ma (almeno in teoria) titanico incarico di riformare lo Stato.

Obiettivo dichiarato: tagliare rami secchi e risparmiar danaro, recuperare produttività ed efficienza, generare infine, “under new management”, lo storico, indispensabile upgrade d’un software – così ha scritto Ramaswami in un momento d’ispirazione tecno-storico-poetica – la cui prima versione, la 1.0, risale all’anno 1776. Obiettivo reale: ribaltare, rimodellandolo in una logica di regime, quello che la nuova destra autoritaria chiama “deep State”. Ovvero: la struttura “neutrale” – polizia, forze armate, giustizia, burocrazia – che, indipendentemente dal segno politico di esecutivo e legislativo, dello Stato democratico garantisce la continuità.

Musk non perde tempo

Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, recitava uno degli slogan che, qualche anno luce fa, in tutto il Primo Mondo scandirono le illusioni tardo-leniniste della contestazione studentesca. E non per caso proprio il Vladimir Ilich Ulianov di “Stato e rivoluzione” – un Lenin usato, ovviamente, in senso antiorario – è l’autore che con più frequenza è stato negli ultimi anni citato da Steve Bannon e da altri teorici reazionari, al fine d’illustrare, sul piano metodologico e teorico, la epocale, “rivoluzionaria” per l’appunto, missione della “nuova destra” che nell’ultimo decennio è andata agglutinandosi, irreversibilmente trasfigurando il Partito Repubblicano, nel culto di Donald Trump. Giusto per questo, per abbattere uno Stato non abbastanza borghese – o non sufficientemente sotto il controllo della nuova oligarchia finanziario-tecnologica – già da ben prima dell’apertura delle urne, Trump e il suo “primo compare” avevano annunciato urbi et orbi la creazione di una nuova ufficiosa agenzia di governo: il DOGE, Department of Government Efficency.

Tutto di Musk si può dire, tranne che sia un perditempo. E tempo, infatti, Musk non ha perso per far capire, mentre ancora Joe Biden sedeva al “resolute desk”, la scrivania dell’Oval Office, nelle mani di chi fosse a tutti gli effetti passato il bastone del comando. Lo ha fatto in questi ultimi scampoli del 2024, con una pioggia di tweet – tecnologica riedizione del manganello – mentre, in una House of Representatives a risicatissima maggioranza repubblicana, lo Speaker Mike Johnson, trumpiano di provatissima fede, cercava, con apparente buon esito, di far passare un provvedimento bipartisan che elevasse il limite del debito pubblico – una particolarità americana le cui origini ed i cui fini troppo lungo sarebbe qui spiegare – per evitare il cosiddetto “shutdown”. Di fatto: la sospensione, per mancanza di fondi, di una molto rilevante parte delle funzioni degli apparati di Stato.

Il ballo del decreto bipartisan

Elon Musk , all’apertura di Notre Dame. Foto di Eric Tschaen-Pool/Sipa

Altolà! Questo decreto non s’ha fare, né oggi, né domani, né mai. Questo, in una rapida successione di perentorie intimazioni, nient’affatto velate minacce e, ovviamente, trumpiane falsità, hanno all’unisono gridato Musk e Trump metaforicamente parandosi, come i bravi manzoniani, di fronte a don Abbondio Johnson. E altolà è immediatamente stato, anche se con esiti finali che ben difficilmente il presidente eletto e il suo “primo compare” (e primo acquirente della democrazia Usa) potrebbero a questo punto definire un successo.

Sotto il peso delle manganellate di “X”, il decreto “bipartisan’ è finito nel cestino della carta straccia. Ma eguale sorte giusto il giorno dopo, grazie alla “ribellione” di 38 deputati repubblicani poco propensi a recitar la parte di don Abbondio, è ingloriosamente toccata all’alternativa elaborata da “Elonald” (come, unendo Elon e Donald, un comico ha in questi giorno ribattezzato il dinamico duo che si appresta a governare gli Stati Uniti d’America). Ed alla fine, giusto sul filo del rasoio, a poche ore dalla chiusura, è passato un decreto sostanzialmente identico al primo.

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La profonda natura antidemocratica del governo

Non è stato un grande esordio quello del nuovo padrone di quella che prima dell’acquisto ancora fondamentalmente era, nel senso comune se non nella prassi, la democrazia americana 190 anni fa per la prima volta con ammirazione raccontata al vecchio mondo da Alexis de Tocqueville. E difficile è, allo stato delle cose, capire quel che effettivamente significhi, in prospettiva, questa prima scivolata. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca – una vittoria, la sua, molto striminzita in termini di matematica elettorale, ma storicamente devastante per la palese natura antidemocratica del vincitore – gli Stati Uniti sono entrati in acque inesplorate.

Tutto è possibile. E potrebbero, alla fine, anzi, già all’inizio, in piena “luna di miele”, aver ragione quanti oggi profetizzano che, come la sconfitta nella House of Representatives sembra indicare, l’assalto alla Stato Profondo preconizzato dai vincitori sia in realtà destinato a rapidamente implodere sotto il peso delle proprie “sovversive” ambizioni, della propria ostentata arroganza, degli impresentabili curricula dei nuovi uomini di governo (uno dei quali, Matt Gaetz, chiamato a dirigere il Dipartimento alla Giustizia, già ha dovuto rinunciare alla nomina) e, ancor più dell’antico principio per il quale impossibile è che due galli dallo sconfinato ego – Trump e Musk – possano pacificamente convivere nel medesimo pollaio. Qualcuno già cominciato a definire Donald Trump “vicepresidente”. Ed arduo è immaginare che l’oggetto della battuta – un personaggio il cui senso della vita comincia e finisce con l’adorazione di se medesimo – possa prendere la cosa con ironia.

Se il capitalismo si fa Stato

Giorgia Meloni e Elon Musk. Foto Ipa/Fotogramma

Per quanto fumosi appaiano in queste ore i possibili esiti del cambio di proprietà, una cosa è certa. La debordante presenza, o onnipresenza, di Elon Musk, il suo ostentato protagonismo, il suo, a tratti trumpianamente ridicolo, atteggiamento da “l’état c’est moi”, non sono che lo specchio dell’avanzata di nuove (o non tanto nuove, ma comunque emergenti) forme di capitalismo. O, per meglio dire del definitivo divorzio dalla democrazia di un capitalismo che nella sua “fase estrema” – chiamiamola così visto che già abbiamo, probabilmente in modo arbitrario, tirato in ballo il vecchio Lenin – tende a farsi Stato. Un capitalismo molto ben rappresentato da quella che, già nel lontano 2007, la rivista Fortune aveva definito, in una storica copertina, la “PayPal mafia”. Di che si tratta?

Usato per la prima volta diciotto anni fa in termini giocosamente ironici, per descrivere gli stretti rapporti tra un gruppo di brillanti imprenditori – tutti a diversi livelli co-fondatori o, comunque, tutti “presenti”, nel lontano 1998, alla fondazione di PayPal, la semi-monopolistica impresa di pagamenti online – il termine “mafia” è tornato a galla, in una molto meno positiva accezione, nei giorni che stiamo vivendo. Non per caso, considerata l’abbondante presenza di questi “mafiosi” nella nuova Amministrazione Trump. Tutti perlopiù in posizioni non ufficiali, ma quasi sempre di grande rilevanza strategica.

La PayPal mafia e il suo alleato Musk

Non solo il “primo compare” Elon Musk” ha, infatti, spettacolarmente indossato le vesti di designato killer del “deep State”, ma anche David Sachs, posto alla guida di un informale agenzia a carico della difesa-promozione-diffusione delle crypto-monete, ha assunto un ruolo di economica e tecnologica preminenza (tra laltro ribaltando la forte avversione ripetutamente da Trump manifestata verso le monete virtuali. Che tutto questo sia avvenuto per la grande generosità con la quale la crypto-industry ha finanziato la sua campagna elettorale?). Il tutto, in ogni caso, all’ombra di Peter Thiel, l’uomo che, tra i fondatori di PayPal sempre è stato il “primus inter pares”. Ed al quale si deve, nelle vesti di padrino politico-finanziario, l’intera carriera politica di J.D. Vance, l’uomo che oggi siede, come vicepresidente, alla destra di re Donald.

Qualche ulteriore dettaglio, per meglio comprendere. Elon Musk non è un teorico. Non lo è mai stato. O, per meglio dire, non ha mai accompagnato le sue attività imprenditoriali, pur alimentate da magnificenti visioni di un futuro marcato da grandi avanzate tecnologiche e da conquiste spaziali – nonché dalla volontà di invertire, con la donazione del suo proprio e fertilissimo sperma, il declino demografico dell’America bianca – con la definizione d’una specifica ideologia. Cosa che invece, negli ultimi tre lustri, ha sistematicamente fatto, con meno appariscente ma assai concreta ed ideologicamente motivata presenza, Peter Thiel.

La teoria dell’obsolenza della democrazia

In passato Elon Musk – pur non arrivando mai a definire Trump “un perfetto idiota” e un potenziale “Hitler americano”, come a suo tempo fece J.D. Vance, aveva in prevalenza appoggiato – specie ai tempi di Obama e specie in materia ambientale dati i suoi interessi nella produzione di auto elettriche – il Partito Democratico. Al contrario, già nel 2016, Peter Thiel aveva preso apertamente le parti di Donald Trump, da lui (a suo modo correttamente) già individuato, anticipando Musk, come l’uomo del futuro, il veicolo, nella sua totale vacuità di pensiero e del suo grossolano carisma mediatico, meglio in grado di regalare all’ipercapitalismo da lui propugnato una base di massa religiosamente manipolabile.

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E, per analoghi motivi, negli ultimi anni aveva anche, sempre Thiel, lautamente finanziato la carriera politica di J.D. Vance, promettente apprendista che, come suo dipendente, aveva lavorato alla guida di Mithrill Capital una delle molte creature destinate a finanziare, in qualità di “angel investor” le più promettenti startup della Silicon Valley.

L’una e l’altra cosa nel nome di una precisa idea politica: quella della obsolescenza della democrazia, dell’ormai insanabile contraddizione tra il governo del popolo e quella che lui – in linea con il libertarismo capitalista, o capitalismo radicale o, nei casi più estremi, anarco-capitalismo – ama chiamare “liberty”, libertà. Una libertà ovviamente identificata con la non interferenza statale, per passività o, ancor meglio, per assenza, sull’unico diritto – quello di proprietà – che davvero conta, perché è da lì che ogni altro diritto deriva.

Questo ha scritto Thiel nel suo “The Education of a Libertarian” pubblicato nel 2009, libro nel quale apertamente e coerentemente ripudia ogni forma di suffragio universale – con una particolare avversione per il voto concesso alle donne –, di fatto propugnando la creazione d’una nuova e preilluministica e mascolina aristocrazia tecnologico-imprenditoriale. In sostanza: la privatizzazione di ogni pubblica funzione.

L’aristocrazia tecnologico-imprenditoriale

Elon Musk con Donald Trump, a Notre Dame de Paris. Foto di Eric Tschaen-Pool/Agenzia Fotogramma

Non erano in realtà idee nuove quelle di Thiel. Anzi: altro non erano che la conferma, brillantemente rielaborata alla luce dell’avanzante “rivoluzione tecnologica”, di quello che, alla luce della Storia, storicamente appare come il comune, inevitabile e molto triste destino di tutto il capitalismo radicale e anarco-libertario, da un lato nutrito da un semireligioso, misticamente progressivo ed autoreferente culto del futuro, e, dall’altro, pronto ad incontrarsi, in un rapporto di affinità elettive, col più remoto e, spesso, oscurantista passato.

Non fu per caso, né per distrazione, che, negli anni ’70 e ’80, i Chicago Boys di Milton Friedman trovarono nella sanguinosa dittatura di Augusto Pinochet, in Cile, l’ambiente ideale per sperimentare in carne viva, con l’assenso ed i buoni consigli del maestro, le proprie teorie liberiste. Cosa che poi fece, in una molto pubblicizzata visita a Santiago, anche il gran padre della scuola austriaca, Friedrich von Hayek. Il quale, per l’occasione, questo notoriamente affermò: “Meglio una dittatura che garantisca la libertà del mercato, che una democrazia che la limiti”.

Il tutto, peraltro, in sostanziale, storica sintonia con il pensiero dell’economista che, di quella scuola, fu il vero fondatore. Ludwig Von Mises, il quale, altrettanto notoriamente, già nel 1919 già aveva denunciato nel suo “Nazione, Stato ed Economia”, come “la democrazia rappresentativa, un uomo un voto” fosse in potenza “la via più rapida per arrivare al socialismo”, ipotesi questa da lui considerato, in qualsivoglia sua forma, un’autentica iattura. Anzi: la iattura per eccelenza.

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Dal medioevo islandese al Ku Klux Klan

Per cogliere appieno il senso ultimo del trionfante trumpismo, le vere radici del miscuglio di antico e di nuovo, di tenebrosi passati e di futuristiche “magnifiche sorti e progressive”,che lo alimenta, vale la pena leggere quello che David Friedman, figlio di Milton e brillante “radicalizzatore” delle idee paterne nel 1973 ha scritto nel suo “The Machinery of Freedom”, considerato un classico dell’anarco-capitalismo. In specie laddove, saltando a piè pari, con un poderoso balzo all’indietro, illuminismo e umanesimo, individua nel medioevo islandese – una società dove ogni regola era privatamente determinata e sottoposta alle leggi della domanda e dell’offerta e dove, per questo, anche un assassino condannato a morte poteva comprare la propria assoluzione ad un adeguato prezzo – l’ideale al quale ispirarsi per il futuro regno della libertà.

Ed ancor più utile è, forse, rileggere gli scritti dell’economista al quale un altro degli aspiranti leader della nuova Internazionale di Destra – il presidente della Repubblica Argentina, Javier Gerardo Milei, come Elon Musk grande ed ammiratissimo amico della nostra Giorgia Meloni – guarda con la mistica venerazione che solo si riserva ai veri messia. Stiamo, ovviamente parlando di Murray Rothbard, l’economista al quale spetta il copyright del termine “anarco-capitalista”. Ed anche il teorico che proprio nello sposalizio tra la più avanzata idea di libertà (la “liberty di cui sopra) e quello che lui chiama “paleo-libertarianismo – ovvero, il più oscuro lato dell’oscurantismo della più classica trinomia “Dio, Patria e Famiglia” – individua la chiave del futuro.

Nel 1992 Murray Rothbard tristemente chiuse questa sua “libertaria” parabola tra le braccia di David Duke – in quell’anno candidato alla presidenza – e del Ku Klux Klan. Dove terminerà la sua corsa l’America che Trump per la seconda volta si appresta a “fare di nuovo grande”, e che Elon Musk ha comprato al modico prezzo di 277 milioni dollari?

Come andrà a finire?

Impossibile è rispondere a questa domanda. Ma certo è che, nella (apparentemente irresistibile ascesa di Elon Musk e della “PayPal “ si può già oggi in trasparenza leggere le linee di fondo o, se si preferisce, scorgere il punto di sutura attorno quale si sono aggregati, nel nome d’una comune avversione alla democrazia ed in forma di culto religioso, futuristiche e libertarie visioni di un domani dominato dal progresso tecnologico ed anchilosate correnti di pensiero, antiche paure, nuovi risentimenti e endemici veleni ideologici – la xenofobia, il razzismo, il fanatismo religioso, per l’appunto – che, da sempre, come contraltare ai principi di eguaglianza che l’hanno fondata scorrono nelle vene di un’America – quella che Elon Musk si è comprato – che, oggi, va cercando il sol dell’avvenire navigando a vista nella notte dei tempi.

Un’America i cui cantori la mattina innalzano inni alla libertà (l’unica che conta, quella di proprietà) dell’individuo. E che il pomeriggio dello stesso giorno ritrovi in piazza intenti a bruciar libri nel nome della lotta alla cultura “woke”.

È una storia nuovissima e, al tempo stesso, vecchissima quella che stiamo vivendo. Una storia appena cominciata la cui conclusione nessuno conosce. Ma che è difficile – davvero difficile – immaginare con un lieto fine.



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