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Il 12 dicembre 2024 è già un giorno memorabile nel mondo della moda. Tutto è iniziato nel pomeriggio, quando l’azienda Bottega Veneta ha annunciato che lo stilista Matthieu Blazy non sarebbe stato più il suo direttore creativo, e che il suo posto sarebbe stato preso dalla stilista Louise Trotter, che lasciava il marchio Carven. Blazy, tra i più talentuosi del settore, si ritrovò senza lavoro, ma un’ora e mezza dopo Chanel, che era senza direttore creativo da giugno, quando se n’era andata inaspettatamente Virginie Viard, disse di aver scelto proprio lui per sostituirla, confermando le voci che andavano avanti da settimane e mettendo fine alle indiscrezioni, che duravano da mesi, su chi avrebbe guidato il marchio.
In meno di due ore l’azienda di moda più ambita sul mercato e il direttore creativo più promettente del momento avevano incrociato le loro strade, mentre il gruppo francese Kering (che possiede Bottega Veneta, Gucci, Balenciaga e Saint Laurent) si era ritrovato con la sua azienda più interessante depotenziata.
Soltanto il giorno prima il famoso stilista John Galliano aveva lasciato la direzione creativa del marchio Maison Margiela dopo dieci anni. Era una notizia che molti aspettavano, perché si sapeva che il suo contratto era in scadenza; i pettegolezzi erano resi più succulenti dal passato di Galliano (licenziato dall’azienda Christian Dior nel 2021 per commenti antisemiti) e dalla fama che aveva riacquistato quest’anno grazie a una sfilata molto riuscita, a un documentario su di lui e all’aver disegnato i vestiti per molte celebrità. Galliano non ha detto dove andrà adesso, alimentando le indiscrezioni che montano da mesi e che lo immaginano di nuovo da Dior, al posto dell’attuale direttrice creativa Maria Grazia Chiuri.
Dieci anni fa sarebbe bastato questo a rendere quello che si sta concludendo un anno di grandi cambiamenti, ma sono solo due delle storie più grosse degli ultimi 12 mesi: a gennaio Matthew Williams se ne era andato da Givenchy dopo 4 anni, a marzo Pierpaolo Piccioli aveva lasciato dopo 8 anni la direzione creativa di Valentino che, una settimana dopo, aveva annunciato come suo sostituto Alessandro Michele, senza lavoro da due anni dopo essersene andato da Gucci nel 2022. A giugno Viard aveva lasciato la guida di Chanel dopo cinque anni e sempre in quel mese si era tenuta l’ultima sfilata di Dries Van Noten, che si era dimesso dall’azienda fondata 40 anni prima. A luglio poi Peter Hawkings se n’era andato da Tom Ford dopo due sfilate, a ottobre Slimane aveva lasciato Celine dopo sette anni e Kim Jones aveva chiuso con Fendi dopo quattro. E queste sono state solo le storie più grosse.
Alcune aziende hanno già trovato dei successori che presenteranno le loro prime collezioni nel 2025, altre come Fendi e Margiela li stanno cercando, ci sono direttori creativi (tra cui Slimane, Piccioli, Galliano, Riccardo Tisci e Jeremy Scott) senza un lavoro, e sono in scadenza il contratto dell’apprezzato duo Lucie e Luke Meier da Jil Sander e quello di JW Anderson, l’ammirato direttore creativo del marchio spagnolo Loewe che, secondo alcuni, potrebbe essere chiamato da Dior per fare una degna concorrenza alla nuova Chanel di Blazy.
Probabilmente nel 2024 si è parlato di assunzioni e licenziamenti, reali o immaginari, dei direttori creativi più che delle sfilate, che sono sembrate spesso poco innovative anche perché chi deve disegnarle è spremuto e sotto pressione in un circolo vizioso. Non è un fenomeno nuovo: già nel 2020 la società di analisi Bernstein aveva calcolato che un direttore creativo durava in media cinque anni, quando l’iniziale curiosità e l’aumento di vendite lasciavano il posto a un calo di interesse e di ricavi che portava al licenziamento.
Negli ultimi due anni però questo “gioco delle sedie”, come viene ormai chiamato, è diventato convulso: i debutti si susseguono (solo nel 2023: Peter Hawkings da Tom Ford, Sabato De Sarno da Gucci, Chemena Kamali da Chloé, Ludovic de Saint Sernin da Ann Demeulemeester, Séan McGirr da Alexander McQueen), i licenziamenti pure (anche dopo solo due stagioni, come successo a Hawkings da Tom Ford o una sfilata come a Saint Sernin da Ann Demeulemeester), i direttori creativi apprezzati si ritrovano senza lavoro e le aziende senza guida. A settembre Chanel, Dries Van Noten, Y/Project, Jean Paul Gaultier, Tom Ford e Lanvin hanno presentato collezioni disegnate da un team interno senza un direttore creativo e anche il 2025 sarà pieno di esordi.
Il motivo principale è che molte aziende di moda, nate spesso come imprese a conduzione familiare, non sono più nelle mani dei fondatori. In quel caso chi disegnava e realizzava i vestiti era anche il proprietario, la visione e gli interessi coincidevano e chi era alla guida del marchio ci restava per decenni (come accaduto per Valentino e Missoni e come accade ancora da Armani e Prada). Ora invece molte aziende appartengono a investitori o grandi gruppi del lusso, spesso sono quotate in borsa e devono riferire di cali anche minimi nei ricavi ogni tre mesi. I dirigenti assumono i creativi per fare profitti e li considerano come «cavalli da corsa su cui scommettere», scrive il sito NSS, per ribaltare le sorti di un marchio in sordina.
È cambiata anche la figura del direttore creativo, che non per forza deve saper disegnare i vestiti e conoscere tecniche e tessuti. Il suo ruolo è immaginare una visione complessiva dell’azienda, realizzarla e comunicarla per portarla all’apice della desiderabilità. Per questo l’azienda francese Louis Vuitton scelse come direttore creativo Virgil Abloh, fondatore del marchio di streetwear Off-White, e poi il musicista Pharrell Williams: per capacità di interpretare lo spirito del tempo, per i contatti con le celebrità e per l’abilità a creare interesse attorno al marchio.
In caso di insuccesso, è facile scaricare la responsabilità su questo nuovo ruolo, che viene trasformato rapidamente da salvatore a capro espiatorio.
Questo meccanismo è stato innescato da alcuni direttori creativi che hanno rivoluzionato l’azienda che guidavano. Secondo Vogue il primo fu Tom Ford, che all’inizio degli anni Novanta trasformò Gucci da azienda di pelletteria semidimenticata al marchio più cool del momento. Nel 2012 Slimane arrivò da Yves Saint Laurent: gli cambiò il nome togliendo “Yves”, gli diede una nuova estetica rock ‘n’ roll e spostò gli uffici stile da Parigi a Los Angeles, scontentando molti nel settore ma convincendo il pubblico: dal 2013 al 2015 le vendite aumentarono del 75 per cento, arrivando a 974 milioni di euro. Nel 2015 Michele diventò direttore creativo di Gucci, dove lavorava dal 2002: disegnò la sua prima collezione in 7 giorni e, da totalmente sconosciuto, diventò uno stilista di culto in tutto il mondo; con lui, le vendite di Gucci passarono da 3,6 miliardi di euro nel 2015 a più di 10 miliardi quando se ne andò, nel 2022.
Adesso le aziende si aspettano ottimi risultati già dalla prima sfilata e concedono poco tempo per assestarsi ai nuovi direttori creativi, che magari provengono da marchi emergenti o fondati da loro stessi, e non sono abituati alle pressioni e agli ingranaggi dei grandi gruppi. Neanche Ford però, rivoluzionò Gucci con la prima sfilata che, anzi, si rivelò deludente, mentre Michele, che impressionò tutti subito, era uno stilista di 40 anni che lavorava a Gucci da più di dieci e che la conosceva perfettamente. Anche lui, comunque, è stato allontanato (almeno così si dice) dopo qualche stagione di calo dei ricavi, pensando che la sua visione avesse ormai stancato.
La storia di Michele testimonia che il successo di un marchio non dipende solo da un direttore creativo, per quanto brillante: ha bisogno di un team efficiente che traduca in abiti le sue idee, di un reparto marketing che sostenga le vendite, di una comunicazione coerente e di una struttura di negozi fisici e online. Funziona, insomma, quando i creativi e i manager sono allineati tra loro e collaborano, com’è accaduto con il sodalizio tra Michele e Marco Bizzarri, l’allora amministratore delegato di Gucci che lo scelse per il ruolo.
Inoltre il direttore creativo, pur dovendo fare più cose, è sempre meno svincolato dalle richieste del reparto commerciale e del marketing. Una delle più comuni, per esempio, è azzeccare una “It bag”, cioè una borsa che piacerà e venderà tantissimo.
Contemporaneamente deve convincere la stampa e gli appassionati di moda, che altrimenti demoliranno il suo lavoro tra recensioni, meme e video su TikTok. A volte un marchio amato sui social non vende molto e c’è una distanza tra quello che vogliono i clienti e quello che si dice su internet, come dimostra il successo commerciale di Chiuri da Dior, generalmente poco ammirata nel settore.
Per molti esperti, la strategia di creare interesse attorno a un marchio nominando un nuovo direttore creativo alla lunga non paga. Per un’azienda non è banale assestarsi attorno a un nuovo capo, che a volte ha nuovi metodi di lavoro e si porta dietro un nuovo team. In più troppi cambiamenti diluiscono l’identità del marchio e rafforzano quella dei direttori creativi di successo, come Slimane e Michele, che diventano celebrità contese tra i brand.
Questa condizione di precarietà può anche indebolire l’attaccamento di un direttore creativo verso il marchio per cui lavora. Molti tra i più giovani mantengono e disegnano le collezioni per il marchio che hanno fondato mentre assumono la guida di una grossa azienda, caricandosi di molto lavoro e tenendo per sé i modelli più interessanti, come ha fatto secondo alcuni lo stilista Peter Do mentre lavorava per l’azienda Helmut Lang.
Infine i continui pettegolezzi su licenziamenti imminenti creano insicurezza e minano la desiderabilità del marchio stesso: chi avrebbe voglia di spendere centinaia se non migliaia di euro per un abito disegnato da qualcuno che potrebbe essere presto cacciato? Forse anche per questo quando Bruno Pavlovsky, direttore della moda a Chanel, ha annunciato l’assunzione di Blazy ha specificato che sarà «a lungo termine»: «non cercheremo di avere tutto sul piatto dal giorno uno. Spero che Chanel possa sostenere la sua visione per molti anni e che possa avere un impatto significativo […] dobbiamo dargli tempo».
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