Nella feroce perfezione dell’amore e la difficoltà di mettersi a nudo

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Non poteva scegliere titolo migliore Monica Pareschi per la sua nuova raccolta di racconti: Inverness (Polidoro, pp. 174, euro 15) dieci anni dopo È di vetro quest’aria (Pequod). Inverness non è solo la località scozzese che la protagonista dell’omonimo racconto sogna di raggiungere: Inverness è anche, e soprattutto, «un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra. Un nome che contiene l’inverno».

UNA TRADUTTRICE raffinata come Pareschi non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di tradurre l’intraducibile, facendo rimbalzare il significante da una lingua all’altra: se si considera che nella lingua inglese con il suffisso -ness si formano i nomi astratti, cosa può significare Inverness se non una sorta di invernità?

«A quei tempi era sempre inverno» annuncia la voce narrante all’inizio del racconto che dà il nome all’intera raccolta – racconto tra i più lunghi e articolati, e non a caso quello che chiude il libro; l’incipit è una precisa indicazione di poetica, così come la scelta del titolo svela la geografia letteraria dell’autrice. Pareschi stessa si definisce una scrittrice «nordica», soprattutto per il suo rapporto con la Natura, con un paesaggio che non rimane mai sullo sfondo. Quanto avrà inciso sulla sua scrittura – viene da domandarsi – aver tradotto le brughiere di Emily Brontë e Thomas Hardy? E quanto, ancora, essere riuscita a rendere in italiano la ferocia dell’amore raccontato in Cime tempestose e in Tess dei d’Uberville?

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Gli otto racconti compongono un piccolo romanzo di formazione in cui le protagoniste – bambine, ragazze, donne – si scontrano con la «feroce perfezione dell’amore» nonché con la crudele asimmetria delle relazioni, e infine con lo scandalo della carne che invecchia. A essere raccontato è l’amore tra un uomo e una donna ma anche quello tra donne di cui Pareschi sottolinea l’incomunicabilità e l’aggressività. Così in Un bacio, ancora, forse uno dei racconti più intensi e complessi per la difficoltà di mettere a nudo, senza scadere nello psicologismo, il meccanismo perverso di repulsione-attrazione della protagonista nei confronti di una compagna di scuola.

Se l’amore è spaventoso, i baci lo sono ancora di più, come dimostrano le tele di Munch, Il bacio e Amore e dolore, che aprono il primo racconto e che vanno considerate come un manifesto poetico, nonché di stile. Qui, a spaventare la protagonista non è tanto la perdita della verginità – «quei brandelli di carne» di cui la giovane donna sembra aver fretta di «liberarsi» – quanto i baci in cui «la lingua, risucchiata, si perde. I denti cozzano. Il respiro è interrotto, la parola mozzata». Pareschi non teme di chiamare le cose con il loro nome: la sua è una lingua esatta, schietta, espressionista, pur mantenendosi sempre elegante e ricercata, nel lessico come nelle scelte sintattiche: «È il bacio il vero scandalo, non l’amore genitale. La ferocia cannibale dell’amore, quell’assalto vampiresco alla forma del sé che all’amore ci fa resistere, è giù tutta prefigurata lì, in quel prodromo crudele del banchetto amoroso».

IL RICHIAMO ALLA CARNE è una costante che attraversa il libro, e allude sì al cannibalismo amoroso ma anche alla fragilità del corpo, alla vanità del tutto. Così il mazzo fallico di peonie, nel racconto I fiori, sembra un dipinto di una natura morta, una vanitas, anche se ancora troppo «arrabbiato» per lasciarsi consumare: «un gran mazzo di peonie di un bianco appena rosato, gonfie e serrate come palle di carne che un’energia rabbiosa forzava da dentro».

Intorno a immagini potenti come questa, o come quella dei gabbiani minacciosi nell’omonimo racconto, o ancora della madre coniglio snaturata in Primo amore, si sviluppano a spirale i racconti, dove a dipanarsi non è tanto la trama (peraltro secondaria in Pareschi), ma una sensazione, un dettaglio, un presagio di vita, e di morte. L’inverno è una condizione esistenziale che tutte le protagoniste attraversano alla ricerca di sé stesse nella speranza di trovare riparo e protezione che le relazioni non riescono a offrire loro. Ed è proprio nei grigi brumosi della stagione invernale che le protagoniste trovano un po’ di calore, uno spiraglio in cui entrare e muoversi più fluide e senza strappi nel mondo. È forse questo che Pareschi che intende quando parla di «indulgenza dell’azzurro»?



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