Trump detta la linea della vendetta

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Con una prima “conferenza stampa” nella sua corte alabastrata, Donald Trump ha dato un assaggio di quello che ci aspetta per i prossimi anni. In piedi davanti alla stampa allineata il presidente restaurato ha mostrato che oltre a non saper perdere ha grandi difficoltà anche quando vince. Non è stato sufficiente per il suo amor proprio, vincere le elezioni, stavolta anche col consenso popolare. Trump è ripetutamente tornato sull’enormità del suo trionfo, storico, record e senza precedenti, ignorando che la sua vittoria è stata relativamente di misura, per poco meno del 2% di margine – il più sottile degli ultimi 25 anni.

Ha spiegato come lui e non l’avversaria avesse vinto il dibattito, ma i media hanno cospirato per fargli fare brutta figura. La recriminazione nella vittoria ha mostrato anche come le destre populiste condividono ormai in tutto e per tutto strategia e lo stile, a partire dal paradossale vittimismo di un potere sempre più autoritario.

Più che di una conferenza stampa si è trattato insomma del consueto deprimente teatro inflitto già durante quattro anni al paese, infarcito di reclami e risentimento.

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Per quanto riguarda le risposte sul programma, hanno mostrato poco più che la solita concatenazione di partenze per la tangente e digressioni che hanno soprattutto dimostrato l’immutata, imbarazzante insufficienza di un autoproclamato “grande leader” capace di perle come: “Mi stanno chiamando tutti i capi di stato… centinaia. È incredibile quanti paesi ci siano!”

Dietro a quell’abisso poco più degli stessi slogan sul progetto di riportare la nazione “alla grandezza e alla prosperità”, la necessità di chiudere il confine, deportare i migranti illegali e dare una lezione ai paesi nemici con i dazi (“‘Dazi’, che bella parola…è la parola che preferisco nel vocabolario!”).

Il dato principale è che d’ora in avanti non conteranno dati, fatti ed effettivi risultati ma solo la narrazione in cui saranno comunque riproposti come una serie di trionfi (amplificati dalla rete ormai capillare e pienamente “consociata” della disinformazione social).

Come fu già quattro anni fa, Trump ha mostrato di non avere altra marcia che il vanto da comizio elettorale proseguendo quindi gli attacchi a Kamala Harris e Biden, magistrati e giornalisti “corrotti”.

Alcuni nemici sono fantasmi di cui apparentemente Trump non sarà mai libero (ripetuti, ancora, gli attacchi a Barack Obama), altri stanno per assaporare la vendetta tanto annunciata nei comizi. “Dobbiamo mettere in riga la stampa, non c’è altra soluzione,” ha scandito Trump ai giornalisti, e sarebbe tutt’alpiù una ripetizione delle litanie ascoltate da anni, se non fosse per l’acquiescenza della stampa stessa e dei gruppi industriali cui fanno capo giornali e network americani.

Un primo sintomo sono stati gli endorsement di Kamala Harris, censurati in autunno dagli editori di Washington Post e Los Angeles Times. Poi c’è stata la missione di “pace” di due celebri anchor della critica MSNBC a Mar a Lago. La scorsa settimana, la ABC (proprietà Disney) ha versato a Trump 15 milioni di dollari per patteggiare una causa per diffamazione che la rete avrebbe sicuramente vinto.

Questa settimana è stato il turno di Tim Cook di Apple, poi di Ted Sarandos patron di Netflix, l’uomo più potente di Hollywood. Gli fa eco la gara delle piattaforme ad ingraziarsi il capo con donazioni di milioni ai festeggiamenti per l’insediamento (oltre a Musk, hanno firmato Bezos, Zuckerberg, Sergei Brin, Sam Altman di Open AI….).

Nel suo intervento, Trump ha commentato con soddisfazione le capitolazioni. “La differenza col primo mandato, quando tutti erano ostili,” ha detto, “è che stavolta tutti sono estremamente gentili. Gentilissimi…”

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Forse per eccesso di “gentilezza”, Patrick Soon-Shiong, editore del Los Angeles Times, ha assunto un mezzobusto della Fox come consigliere e dichiarato alla redazione che “è ora di prendere una pausa nella copertura di Trump”.

Nei talk serali le battute su Trump che sono state fonte principale di materiale comico, si sono diradate fino a quasi scomparire. La lezione della vittoria di Trump sembrerebbe insomma essere stata acquisita ed introiettata fin troppo dai media.

A scanso di equivoci però, a Mar a Lago, Trump ha anche annunciato una raffica di nuove querele a giornalisti (anche questo copione evidentemente condiviso con leader populisti europei).

“Citeremo in tribunale il Des Moines Register (il giornale dell’Iowa che aveva pubblicato un sondaggio a lui sfavorevole durante la campagna elettorale) e la CBS.” “Denuncerò Bob Woodward,” ha aggiunto a proposito del premio Pulitzer del Watergate che ha scritto un libro sule trasgressioni di Trump. “E chiederò che vengano ritirati i premi Pulitzer che il New York Times ha vinto scrivendo della mia collusione con la Russia.”

Per essere efficace, l’intimidazione necessita della sottomissione. Le istituzioni e i media che in passato avrebbero fatto mostra di resistenza, appellandosi al primo emendamento e alla gloriosa tradizione di indipendenza della stampa anglosassone, hanno scelto la resa preventiva.

L’anno di maccartismo applicato al dissenso contro la guerra di Gaza ha dato evidentemente i frutti di cui l’amministrazione autoritaria si avvarrà ora appieno per imporre la propria linea e “mettere in riga” i recalcitranti.

In un’America sempre meno riconoscibile, si preannunciano quattro anni di recriminazione e criminalizzazione del dissenso tali, nell’intenzione degli estremisti Maga che controllano l’apparato dello stato, da infliggere danni che non sarà facile riparare.

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