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Docente di Lettere all’istituto tecnico Rosa Luxemburg, racconta i suoi studenti di seconda generazione: «Vivono un’ambivalenza. Guai disprezzarli, genera aggressività»
«Arrivano confusi, hanno paura di non essere accettati, di avere l’etichetta di cittadino straniero addosso, mentre loro vogliono essere considerati italiani. Per questo vanno ascoltati, rassicurati e non bastano le parole per farlo».
Così il professor Andrea Lado, docente di Lettere all’istituto tecnico Rosa Luxemburg, racconta i suoi studenti di seconda generazione: «Abbiamo un’alta concentrazione di ragazzi e ragazze nati in Italia con genitori stranieri, alcuni in questo Paese da talmente tanto tempo che potremmo quasi dire di terza generazione». Parla di loro anche come tutor per il benessere scolastico, figura che la scuola di via della Volta ha introdotto da due anni. «Se un ragazzo sta bene a scuola, allora va bene a scuola e sta bene nella vita — spiega —. Alcuni non stanno bene a scuola e non vedono l’ora di andare a lavorare, ma è una falsa dichiarazione, perché l’ambiente giusto per un adolescente è la scuola. Il benessere scolastico è dato dal fatto di trovarsi bene in classe, accettati, non discriminati e in caso di difficoltà, dal poter essere aiutati».
Come stanno questi ragazzi?
«Si trovano spesso a vivere un’ambivalenza: in casa la cultura del Paese d’origine, anche nelle modalità educative, è ancora forte, c’è un aspetto conservatore; fuori vivono la società italiana e i suoi cambiamenti. Questo li rende confusi. In particolare, ci sono alcune etnie che tendono a stare isolate tra loro e quando cercano di integrarsi prevale una certa aggressività, come se la via giusta per essere accettati fosse quella di alzare la voce».
Quali disagi le riferiscono? Quali paure e fragilità?
«La paura di non vivere un’adolescenza positiva, di non andare bene a scuola, di non avere un gruppo di amici, la paura dell’insuccesso, lo smarrimento di fronte al futuro. Conoscono le fatiche dei loro genitori, dovute a storie di immigrazione spesso difficili, temono di doverle ripetere, ritrovarsi a fare da grandi lavori impegnativi e poco gratificanti. Allora vanno incoraggiati. Li aiuto nel coordinare gli studi, nel farli studiare in gruppo. Un risultato scolastico positivo può dare loro sicurezza, farli sentire vincenti e quando accade decollano».
Nota aggressività?
«Le persone che manifestano particolare aggressività o non vanno a scuola o ci vanno senza nessun risultato. Quando i ragazzi vengono ascoltati, invece, decresce l’aggressività. Un ragazzo arrabbiato, che arriva a usare la violenza, ha comunque del buono dentro di sé. E se si ha l’umiltà di accorgersene, di ascoltare, valorizzare quel che di buono emerge, dall’altra parte c’è stupore. Il disprezzo invece genera aggressività. Cerchiamo di lavorare molto sull’autostima».
Una storia di successo?
«Ricordo bene un ragazzo moldavo, faceva danni in giro, convinto che comportandosi così sarebbe stato rispettato. Era molto in crisi, stava per ritirarsi, abbiamo lavorato tanto sul concetto di rispetto. Era sensibile e aveva una situazione familiare impegnativa, con il padre che gli aveva insegnato che scusarsi fosse da deboli. Abbiamo dovuto ribaltare questo concetto. Pian piano ha trovato fiducia in sé stesso, si è integrato con ragazzi di varie classi e ha iniziato a girare a testa alta a scuola, non più a testa bassa. Poi si è iscritto anche all’università».
Quanto c’è ancora da fare secondo lei?
«Molto. Anche alla luce degli ultimi fatti di cronaca, possono aumentare la paura e l’intolleranza. È una situazione da spezzare. Gran parte del nostro lavoro è proprio rivolto alla creazione di un’atmosfera di classe e poi di scuola, di scuola di vita. L’integrazione è la principale missione della scuola oggi. È un’urgenza. E l’ascolto è alla base. Giro molto nei corridoi, saluto, chiamo i ragazzi e le ragazze per nome, vanno valorizzati come persone. Questa è la via».
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