È stato presentato oggi alla Camera il dodicesimo rapporto di Itinerari Previdenziali sul “Bilancio del sistema previdenziale italiano”. Il primo dato che si rileva è che nel 2023 la spesa pensionistica di natura previdenziale, comprensiva delle prestazioni Ivs (invalidità, vecchiaia e superstiti), è risultata pari a 267,107 miliardi di euro, con un incremento di 19,53 miliardi (+7,88%). Sull’aumento hanno pesato in maniera sostanziosa sia l’aumento del numero di pensionati, in crescita di +98.743 unità rispetto al 2022, sia la rivalutazione degli assegni di importo più basso all’inflazione (+7,3% ricalcolato all’8,1% per le minime).
L’incidenza della spesa previdenziale sul Pil è pari al 12,55%, percentuale che scende all’11,48% (valore in linea con la media Eurostat) se si escludono dal calcolo Gias dei dipendenti pubblici, maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo per il settore privato (22,809 miliardi in totale), spese che la stessa Inps classifica come assistenziali.
Complessivamente sulle pensioni niente allarmismi. Il sistema è sostenibile, ma servono piuttosto scelte coerenti con la demografia. Grazie a un’occupazione in ripresa, benché distante dai livelli europei, migliora il rapporto attivi-pensionati, fondamentale indicatore di tenuta della previdenza. Nel 2023 si attesta infatti a quota 1,4636. Si tratta del miglior valore della serie storica tracciata dal rapporto.
La soglia della semi-sicurezza dell’1,5 è ancora da raggiungere, ma nel complesso il sistema regge e continuerà a farlo, a patto di compiere, in un Paese che invecchia, scelte più oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento. Lo studio riferisce che il numero di pensionati sale dai 16,131 del 2022 ai 16,230 milioni del 2023 (+98.743). Dopo la crisi pandemica prosegue la netta risalita del tasso di occupazione, che a fine 2023 ha sfiorato il 62% pur restando tra i più bassi d’Europa.
I numeri, dunque, descrivono un sistema in equilibrio, ma la cui stabilità nei prossimi anni dipenderà sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza che da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto. Dopo un trend positivo avviatosi nel 2009 e proseguito in modo costante fino al 2018 per effetto delle ultime riforme previdenziali che hanno innalzato gradualmente requisiti anagrafici e contributivi, il numero di pensionati italiani si mostra di nuovo in risalita: nel 2023 i percettori di assegno pensionistico sono 16.230.157 a fronte dei 16.131.414 nel 2022 e dei 16.004.503 del 2018, anno in cui si era toccato il valore più basso di sempre.
L’incremento del numero dei pensionati, sottolinea il rapporto, è ascrivibile alle molteplici vie d’uscita in deroga alla Fornero introdotte dal 2014 in poi e culminate negli ultimi anni con l’approvazione dapprima di quota 100 nel 2019 e, a seguire, di quota 102 e quota 103. Su 3,63 residenti italiani almeno uno è pensionato, dato molto elevato se si tiene conto che il picco dell’invecchiamento della popolazione sarà toccato nel 2045.
Lo studio rileva un aumento di 98.743 pensionati rispetto al 2022 (+0,61% in termini di variazione percentuale), con gli uomini che salgono di 68.963 unità e le donne pensionate che incrementano invece il loro numero, nel confronto con la precedente rilevazione, di 29.780 unità. Degli oltre 16 milioni di pensionati il 51,6% è rappresentato da donne, tra l’altro destinatarie dell’85,8% del totale delle pensioni di reversibilità (con quote della pensione diretta del dante causa variabili tra il 60% e il 30%, in base al reddito del superstite).
Nel 2023 risultano in pagamento 22.919.888 prestazioni pensionistiche, con una crescita di oltre 140mila trattamenti (+0,65%) rispetto alle 22.772.004 dell’anno precedente. Si tratta di 17.752.596 prestazioni erogate nella tipologia Ivs, cui vanno aggiunte 4.540.149 pensioni assistenziali Inps e 627.143 prestazioni indennitarie Inail. Rispetto al precedente rapporto calano quindi le pensioni indennitarie (-2,19%), mentre crescono sia le prestazioni Ivs (+0,24%) che quelle di natura assistenziale (+2,70%), cui va principalmente imputato l’aumento complessivo dei trattamenti somministrati.
A prescindere dalla tipologia, in media ogni pensionato riceve 1,421 prestazioni. Ciò significa che è in pagamento una prestazione ogni 2,574 abitanti, vale a dire circa una per famiglia. Valore tutto sommato stabile rispetto alle ultime rilevazioni, ma che salirebbe addirittura a una prestazione ogni 2,1 abitanti considerando nel computo anche il reddito di cittadinanza (ancora in vigore seppur con modifiche nel 2023) e i trattamenti assistenziali erogati dagli enti locali.
“Malgrado i molti catastrofisti che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico – ha detto Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali – i conti della nostra previdenza reggono e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980 saranno pensionati”. L’equilibrio è però sottile. “Occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema – ha aggiunto – vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi”.
Il rapporto ribadisce la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età.
Mentre la spesa per prestazioni previdenziali resta stabile e in linea con la media europea, il capitolo assistenza continua a gravare fortemente sul bilancio del welfare. Sono 164 i miliardi a carico della fiscalità generale nel 2023, con una spesa che dal 2008 a oggi è cresciuta 3 volte più rapidamente di quella per pensioni e senza generare miglioramenti negli indicatori di povertà Istat.
L’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi di euro, con un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente (24,2 miliardi). La spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93%. Percentuale inferiore rispetto al 2022 (51,65%), ma soprattutto per effetto del notevole incremento delle spese in conto capitale. Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di poco più di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di 151,448 miliardi strutturali (+35%). Aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25% (+78 miliardi) a fronte dei soli 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53%) e del 29,26% del Pil.
Complessivamente il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale è ammontato nel 2023 a 164,432 miliardi, con un aumento di 7,42 miliardi rispetto al 2022. Dal 2008, quando la spesa per assistenza ammontava a 73 miliardi, gli oneri a carico dello Stato sono più che raddoppiati, con un tasso di crescita annuo del 5,21% addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni che sono però sorrette da contribuzione di scopo.
“Il tutto mentre il debito pubblico si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e secondo i dati Istat – ha detto Alberto – il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,7 nel 2023). Verrebbe da dire che non solo spendiamo molto, ma che spendiamo anche male. Se la distribuzione di sussidi a piè di lista, al posto di strumenti e servizi che aiutino a uscire dalla condizione di povertà, non favorisce la presa in carico di quanti sono davvero bisognosi, gli scarsi controlli incentivano lavoro nero e sommerso, generando uno dei tassi di occupazione peggiore in Europa”.
Sono soprattutto due i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul Pil, che vale il 29,31% con l’esclusione della casa, e quello sulla spesa pubblica totale pari al 50,93%. In buona sostanza, al sistema di protezione sociale italiano è destinato poco meno di un terzo di quanto si produce e più della metà di quanto si spende in totale.
Se per Inps e Inail si può però parlare di “equilibrio”, vale a dire di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi per assistenza, sanità (intorno ai 131 miliardi l’importo della spesa) e welfare degli enti locali (circa 13,4 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere finanziati attingendo alla fiscalità generale.
Secondo Brambilla accanto alla stretta sull’assistenzialismo “vanno affiancati concreti interventi sul nostro mercato del lavoro, rafforzando formazione, politiche attive e strumenti di incontro tra domanda e offerta. Tutte misure in prospettiva più efficaci delle diseducative e inefficaci decontribuzioni che, come insegna la lunga storia italiana, non producono risultati, minano i conti pubblici e favoriscono, nella migliore delle ipotesi, incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni”.
Quanto alla previdenza in senso stretto, il quadro appare più stabile anche in prospettiva, a patto che l’Italia prenda finalmente consapevolezza di essere dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi. Da qui la necessità di limitare, davanti a un’aspettativa di vita sempre più elevata, le troppe forme di anticipazioni di questi ultimi anni a pochi ma necessari strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà (riportando però l’anticipo a un massimo di 5 anni), prevedendo viceversa incentivi, come il cosiddetto superbonus, per chi volontariamente desidera restare al lavoro fino ai 71 anni di età.
Proprio i trend demografici impongono però un ripensamento del welfare a tutto tondo, tanto più che vincoli economici e di finanza pubblica impediranno ulteriori grossi aumenti della spesa per protezione sociale malgrado le pressioni legate all’invecchiamento della popolazione. “Serve una più forte integrazione tra welfare pubblico e privato – ha concluso Brambilla – per arrivare al welfare mix che ormai caratterizza la maggior parte dei Paesi ad alto e medio reddito. Eppure, la politica resta diffidente nei confronti di quelle tutele complementari che potrebbero allentare la pressione sul sistema pubblico”.
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