È un grande classico quello di estrapolare una frase ad effetto, virgolettarla, tralasciare il contesto e crearci attorno un titolo. Obiettivo: indignare, scioccare, provocare la reazione di un pubblico che non desidera altro che un’occasione per sfogare i propri istinti. Un pubblico abituato a ricevere verità a spizzichi e bocconi e che si accontenta, dunque, di semplificazioni. Il caso è quello dell’omicidio di Gabriela Renata Trandafir (47 anni) e della figlia Renata Alexandra (22 anni) per mano di Salvatore Montefusco, una vicenda familiare complessa, intrisa di dinamiche tossiche e profonde lacerazioni, che si è conclusa tragicamente il 13 giugno 2022.
In 213 pagine, la Corte di Assise di Modena ha ricostruito in maniera minuziosa «un sistema di vita di relazione doloroso e avvilente», sviluppatosi in contesto di maltrattamenti reciproci e culminato nel peggiore dei gesti. Maltrattamenti subiti anche dall’omicida e che hanno spinto la giudice Ester Russo a parlare di «comprensibilità umana dei motivi» che lo hanno spinto a commettere il reato. Parole che hanno fatto gridare allo scandalo, ma a scatola chiusa. Perché anche se sicuramente formulabili in maniera “esteticamente” più accettabile, a renderle più abiette è quel taglia e cuci che ha fatto finire sui giornali solo tre passaggi, offerti al pubblico senza dare conto dell’enorme mole di prove che testimoniano un fatto: una situazione invivibile in cui tutti vessavano tutti.
Basterebbe leggere la drammatica testimonianza del figlio superstite, testimone oculare di quella tragedia, per avere un quadro di una situazione familiare disastrata. Niente giustifica l’omicidio, questo è chiaro. Ma nella sentenza oggi oggetto di scandalo non c’è nessun cedimento empatico da parte dei giudici nei confronti di Montefusco, che pure viene punito con 30 anni di carcere, non certo assolto. Non sarà un ergastolo, ma nel caso di un uomo di 72 anni la differenza è puramente semantica. E simbolica, per chi forse vorrebbe che a decidere una sentenza fosse un algoritmo, senza alcuna valutazione del contesto, pure necessario per bilanciare aggravanti ed attenuanti, come se nelle aule ci fosse già quel giudice robot a cui tutti guardano con orrore.
Leggere la sentenza è un esercizio interessante. Perché si scopre, in primo luogo, che non c’è la connotazione tipica del femminicidio, non essendoci, nel gesto di Montefusco, «un anacronistico senso di possesso per l’essere (reputato inferiore) donna nonché la incapacità di accettare una scelta di rottura ed il successivo abbandono». Non era la separazione ciò che l’uomo non accettava, ma «essere obbligato a lasciare la casa che aveva costruito con le sue mani ed in cui aveva chiesto di poter restare per poter continuare a partecipare alla vita del figlio, per poterlo assistere, per poter stare accanto a lui, in un frangente in cui lo stesso, prima e incolpevole vittima della atroce conflittualità familiare, ne avrebbe pure avuto estremo bisogno».
Una casa maledetta che l’uomo aveva intestato alla figliastra e al figlio. E dalla quale le due vittime, stando alle molteplici testimonianze, volevano buttarlo fuori, cercando anche di convincere il minore dei figli a vendere la propria quota. Emerge inoltre, stando a prove e testimonianze, che Montefusco non aveva segregato e isolato le donne, come le stesse avevano denunciato ripetutamente, e non le aveva private dei mezzi di sostentamento, almeno fino a «qualche mese prima dei tragici fatti ed esclusivamente perché il Montefusco, indispettito dalla loro condotta, aveva deciso di non acquistare più per loro generi alimentari e prodotti per la pulizia, continuando a farlo solo per il figli».
Ed era stato lo stesso figlio a riferire le violenze delle vittime su quello che poi sarebbe stato il loro carnefice, come impedirgli «di dormire nel proprio letto, di utilizzare i bagni della propria abitazione, di prendere un caffè, di muoversi liberamente nella propria casa le cui camere venivano chiuse a chiave e persino di orinare nel water; di essere costantemente ripreso con le videocamere dei telefoni cellulare; di essere usualmente minacciato e invitato a lasciare la propria abitazione; di essere aggredito anche fisicamente riportandone le lesioni refertate come in atti, di essere infine sottoposto a continue e reiterate denunce ed all’intervento ormai abituale dei carabinieri presso l’abitazione».
Anche quelli di Montefusco, precisa la sentenza, erano maltrattanti: aveva spiato i movimenti delle donne tramite un investigatore e un Gps installato sull’auto della moglie, le aveva minacciate «con formule generiche» e aveva appunto negato, negli ultimi mesi, «il proprio apporto economico», tant’è che le vittime, «per tale motivo, avevano intrapreso, entrambe, sia pur precarie attività lavorative». Ma, scrivono i giudici, «Montefusco, arrivato incensurato fino all’età di 70 anni, non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate tra gli abitanti della villa della Casona, ed all’esclusivo fine di difendere e proteggere il proprio figlio e le sue proprietà. Pertanto, le attenuanti generiche dovranno essere valutate equivalenti alle residue aggravanti contestate al Montefusco, in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato».
Siamo a pagina 205, l’unica ritenuta di interesse pubblico. Pubblico che non ha potuto leggere, sui giornali, tutti quei «fattori ambientali che hanno senz’altro condizionato l’insorgenza della condotta criminosa». Una condotta che non può essere – e di certo non viene – minimizzata, ma punita gravemente con una condanna pesante, che però tiene conto della complessità della situazione, al di là di una singola frase.
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