Agrumicoltura biologica in Sicilia: l’esempio di Paolo Ganduscio tra benefici e sfide

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“Produrre in bio fa bene all’ambiente, alla salute (dei consumatori e degli agricoltori) e – cosa che non dispiace – anche alle mie tasche”, afferma Paolo Ganduscio agronomo e agrumicoltore a Ribera, in provincia di Agrigento, dove conduce un’azienda di circa 13 ettari dove produce arance bionde del gruppo Navel.

La scelta del biologico operata da Ganduscio, oggi 67enne, risale a molti decenni fa, prima che il metodo produttivo venisse riconosciuto e regolamentato dall’Unione Europea.

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Da giovane agronomo si rese presto conto che l‘uso degli agrofarmaci e dei fertilizzanti chimici portava ‘naturalmente’ all’abuso e al loro cattivo uso. Cominciò così a optare per i fertilizzanti organici, a non preoccuparsi più di tanto delle erbe infestanti e a sposare la lotta biologica per il controllo dei parassiti. “Ma questo non era sufficiente per la mia idea di biologico…”, osserva Ganduscio. “Mi resi conto che era necessario intervenire a livello del suolo: ho abbandonato le lavorazioni del terreno già 15 anni fa e ho cominciato a lasciare crescere le erbe spontanee sfalciandole non appena avessero raggiunto una certa altezza per evitare di aumentare troppo la loro capacità competitiva nei confronti delle piante di agrumi”. E poi? “I residui vegetali sono stai lasciati sul terreno insieme ai residui di potatura. Insieme hanno creato uno strato protettivo che ha permesso di ridurre la temperatura del suolo nelle nostre torride estati: 36 gradi centigradi contro i 55 raggiunti in media da un terreno nudo. Circostanza che ha ridotto di gran lunga l’evaporazione dell’acqua”. Le radici delle erbe spontanee rimaste nel terreno che avevano già solubilizzato i nutrienti, li hanno così resi disponibili per le piante di agrumi.

Ma l’effetto più importante si è sentito sul fabbisogno idrico della coltura. La prolungata siccità del 2024 non ha consentito al consorzio di bonifica di erogare i consueti (e necessari) volumi idrici. Non più i soliti 2 mila metri cubi per ettaro (tanti ne servono in media all’agrumeto) ma solo 500. “Avevo le mie limitate risorse aziendali in un vascone alimentato da una piccola sorgente, ma anche queste non sarebbero state sufficienti a far produrre e tenere in vita le piante. La produzione è salva grazie al fatto che con la tecnica della pacciamatura l’agrumeto ha perso per evapotraspirazione il 30 per cento in meno di acqua. Acqua che è rimasta a disposizione delle piante e che le ha fatte produrre quasi regolarmente”. Il calibro dei frutti non ha raggiunto la dimensione massima, ma rientra, comunque, tra quelli commercializzabili. “Molti produttori, qui a Ribera e dintorni, – osserva Ganduscio – saranno costretti, invece, a conferire le arance all’industria perchè i frutti sono troppo piccoli”.

Da due anni poi, riferisce l’agricoltore, nei suoi agrumeti non si preoccupa più di distribuire i fertilizzanti. Una spesa in meno da sostenere che non ha inciso minimamente sui valori dei nutrienti presenti nel suolo che, come dimostrano le periodiche analisi del terreno, si mantengono a livelli ottimali. “Dopo tanti anni di ‘non lavorazione’ e di restituzione della materia organica prodotta da oltre 40 specie spontanee, il suolo ha raggiunto un perfetto equilibrio che si riverbera nello stato di salute delle piante e nel soddisfacente livello produttivo”, afferma Ganduscio, che nel 2004 venne nominato Cavaliere del Lavoro.

Nelle aziende biologiche, si sa, non si possono ottenere volumi produttivi paragonabili a quelle che producono in convenzionale, ma alla fine, per Ganduscio, i 350 quintali per ettaro di arance del tipo Navel che in media raccoglie nella sua azienda, sono fonte di soddisfazione. La produzione, integrata dai raccolti di altri agricoltori biologici che con l’azienda di Ganduscio condividono le scelte produttive (“I miei partner li ho scelti uno per uno e sono sicuro di quello che conferiscono nel mio magazzino di lavorazione”), viene commercializzata per metà, l’altra metà tra la Francia e la Germania. Pochi, ma fidelizzatissimi gli acquirenti all’ingrosso: uno in Italia, due in Francia, uno in Germania.

A conti fatti l’agrumicoltore di Ribera, smentisce quello si dice sempre a proposito dell’agricoltura biologica. E cioè che i prodotti bio sono più cari dei convenzionali perché produrre in bio è più costoso: “I miei costi di produzione sono inferiori di circa il 30 per cento. Spendo nulla in fertilizzanti e meno in energia sia per la distribuzione dell’acqua che per le lavorazioni del terreno”. In più la presenza di moltissime specie tra le piante spontanee sotto gli agrumi aiuta molto nel controllo dei parassiti. Un esempio? La presenza della Rumex crispus è fondamentale nell’evitare attacchi degli afidi visto che questi insetti la preferiscono ai germogli degli agrumi.

E allora come spiegare il costo così elevato per il consumatore? Due i motivi: la semplice speculazione e i costi connessi alla burocrazia del biologico in tutti i passaggi della la filiera che seguono il conferimento da parte dell’agricoltore. Motivo che spinge grossisti e piattaforme del fresco a rifiutare i prodotti biologici, spingendo gli agricoltori a venderli come convenzionali. Meno burocrazia, meno registri, meno controlli, insomma. E, soprattutto meno rogne. Con buona pace per una regione come la Sicilia che ha il record europeo per il numero di aziende in biologico e dove, tuttavia, in molti devono rinunciare a mettere in tasca il valore aggiunto del bio.

Un fenomeno che ha portato a una semplicistica conclusione. Ovvero che in molti ricorrono al biologico solo per intascare i contributi dell’Unione Europea. A volte capita. Ma non è sempre vero. Il problema rimane sempre lo stesso: agli agricoltori siciliani manca il coraggio o la volontà di organizzarsi per agire sul mercato in modo collettivo. Niente e nessuno è riuscito, finora, a trovare la cura per l’individualismo, il male antico dei siciliani.

Angela Sciortino

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