“L’Italia l’è malada” ma non esiste un dottore che possa curarla – NAUFRAGHI/E

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Conto e carta

difficile da pignorare

 


Dal nostro corrispondente dall’Italia

«L’Italia l’è malada,
Sartori l’è il dutùr,
per far guarir l’Italia
tajém la testa ai sciùr».

Gli ultimi giorni del 2024 evocano le parole di questo canto di ribellione ottocentesco, riproposto una dozzina d’anni fa dalla cantautrice Giovanna Marini, scomparsa l’8 maggio scorso, nell’album dal bel titolo “Canti gloriosi – Per una patria che muore”. Lo potete ascoltare su Youtube.

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Il canto è noto agli appassionati di musica popolare con il titolo “La boje”, e qui è necessaria la traduzione: nei dialetti veneti sta a significare “bolle”, terza persona singolare del verbo bollire, nel senso che il Paese era in ebollizione per i soprusi imposti alle masse contadine dai grandi proprietari terrieri.

Siamo negli anni 1882-1885, un ventennio dopo l’Unità d’Italia, quando in alcune località comprese tra la Lombardia e il Veneto esplose la rivolta di migliaia di contadini e braccianti agricoli ridotti alla fame. Molti di loro, qualche anno dopo, evidentemente rinunciando a «tagliare la testa ai ricchi», come simbolicamente suggeriva quello straziante canto popolare, furono costretti a emigrare verso il Sudamerica, inizialmente soprattutto in Brasile, che necessitava di manodopera nelle piantagioni di caffè dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888. Il dottore che avrebbe dovuto curare l’Italia ammalata, citato nel canto, era Eugenio Sartori, un ingegnere di fede socialista, fondatore della Società di mutuo soccorso dei contadini della provincia di Mantova.

Dopo 140 anni di storia, di conquiste democratiche e sociali, non ci sono più braccianti agricoli ridotti alla fame o, meglio, ci sono ancora nelle campagne del Meridione, dove il caporalato recluta lavoratori africani sottopagati e sfruttati all’inverosimile. L’Italia ha fatto passi da gigante sull’onda di un progresso mai conosciuto prima, ma oggi è di nuovo ammalata. Il Paese è profondamente diviso, incattivito, con buona pace dei profeti buonisti di qualche anno fa, quando prevedevano che dopo l’epidemia del Covid saremmo diventati tutti migliori. Aumentano le disuguaglianze sociali (cinque milioni e 700mila cittadini sono in condizioni di povertà assoluta, dati ISTAT), mentre centinaia di migliaia di giovani vivono di precariato, senza un futuro dignitoso, e i più intraprendenti fuggono all’estero. 

L’eco della malattia dell’Italia, nel XXI secolo, non si diffonde più con i canti popolari di ribellione bensì attraverso i social network, in qualche manifestazione di protesta degli studenti prontamente repressa dalle forze dell’ordine, nei concerti trasgressivi di qualche rapper. Soprattutto, si manifesta attraverso la rinuncia in massa a esercitare il primo dei diritti-doveri dei cittadini di una democrazia, quello del voto: l’astensionismo, nelle varie tornate elettorali, ha superato quest’anno la soglia del 50 per cento, per cui i governi espressi dalle elezioni sono per forza di cose “di minoranza”. I professionisti della politica, anziché interrogarsi su questo grave fenomeno e cercare di risolverlo, se ne fregano, asserragliati nel loro piccolo mondo fatto di privilegi di casta.

La febbre è alta, i mali sono ben noti ma al capezzale di una “patria che muore” si avvicendano medici improvvisati, incapaci di applicare le cure necessarie per guarire questa Italia che, tuttavia, continua ad essere annoverata tra i cosiddetti Sette Grandi della Terra, assieme a Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito, Giappone. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, impegnata più che altro a conquistarsi una visibilità e una credibilità a livello internazionale – in questo, bisogna riconoscerlo, è abilissima – quotidianamente esalta i mirabolanti risultati raggiunti dal suo Governo. Nei suoi monologhi autocelebrativi (le conferenze stampa sono sempre più rare) snocciola dati elaborati ad arte per dimostrare tesi che non stanno in piedi. Rappresenta situazioni assai lontane dalla realtà, con la complicità di giornalisti asserviti. Vede complotti ovunque ad opera della magistratura e delle opposizioni. Difende a spada tratta situazioni indifendibili che coinvolgono i suoi ministri, e tace su altre a dir poco scandalose, come quella di una ministra accusata di bancarotta e di aver truffato l’Inps con le sue aziende e che tuttavia non ha nessuna intenzione di dimettersi. Soprattutto, mentre appoggia la politica guerrafondaia della Nato e dell’Unione europea, non riesce a dare risposta concreta ai reali bisogni dei cittadini, come dimostra la legge di bilancio 2025 appena approvata, che contiene veri e propri paradossi come l’aumento delle pensioni minime di un euro e 80 centesimi mensili.

Diciamolo, sembra d’essere di fronte alle bibliche sette, o dieci, piaghe d’Egitto. Mentre per ora ci viene risparmiata l’invasione delle cavallette, flagello per eccellenza della terra dei Faraoni, non c’è settore della vita istituzionale-amministrativa che non ceda di fronte a ben altro assalto, quello di una classe dirigente cialtrona, rapace, incompetente, spesso corrotta, come dimostrano le centinaia di inchieste della magistratura che dai tempi di Tangentopoli, senza interruzione, continuano a mettere in luce episodi di malaffare, da Nord a Sud, con frequenti intrecci tra malavita organizzata e politica.

Tutto questo accade mentre la gran parte degli italiani, quelli che non appartengono alle élites, è animata dai mai tramontati valori che sono fondamento di una società civile, quali l’onestà individuale, il rispetto reciproco, la solidarietà. Sono gli italiani che lavorano e pagano le tasse, contribuendo così alla tenuta del sistema-Italia nelle negative congiunture internazionali. Al tempo stesso, questi italiani perbene sostengono i servizi pubblici anche per conto dei tanti, troppi evasori fiscali, “protetti” nel corso di due anni di governo della destra da una ventina di condoni.

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Il lungo elenco dei mali d’Italia comprende, com’è noto, anche il sistema sanitario pubblico, pesantemente penalizzato a favore della sanità privata, che lucra alle spalle dei pazienti grazie a Regioni compiacenti. La conseguenza: molti, scoraggiati dalle interminabili liste d’attesa e impossibilitati a pagare di tasca propria visite ed esami di laboratorio privati, rinunciano alle cure. 

C’è poi la questione della famigerata autonomia differenziata, cioè la legge che spacca l’Italia in due tra le ricche regioni del Nord e quelle povere del Sud, “smontata” dalla Corte costituzionale e oggetto di un referendum abrogativo. E la Giustizia? Mentre a gennaio si faranno sentire le devastanti conseguenze dei provvedimenti del precedente Governo, l’attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha proposto e ottenuto in agosto l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, «un regalo alle mafie», lo ha definito Roberto Scarpinato, ex magistrato e ora senatore del Movimento 5 Stelle. 

Intanto gongolano Matteo Renzi e Matteo Salvini, usciti indenni, il primo dall’inchiesta sulla Fondazione Open, il secondo dal processo di Palermo che lo ha visto assolto dall’accusa di sequestro di persona per la scandalosa vicenda della nave della Open Arms, sulla quale, nel 2019, sono rimasti bloccati per molti giorni, in condizioni disumane, numerosi migranti per ordine dell’allora ministro dell’Interno. Ma invece di ammettere che la magistratura, pur tra mille difficoltà, fa bene il proprio lavoro in piena autonomia e indipendenza, e che le “toghe rosse” sono una loro ossessione, entrambi strillano reclamando altre riforme con l’obiettivo d’indebolire sempre più il potere giudiziario. Del resto, sono idealmente sostenuti in questa campagna anti-magistrati, oltre che dalla presidente del Consiglio, dallo stesso ministro della Giustizia, il quale, proprio dopo l’assoluzione di Salvini, ha affermato che «questo processo, fondato sul nulla, non si sarebbe nemmeno dovuto iniziare» e che «bisognerà pur pensare a risarcire le persone che finiscono sulla graticola giudiziaria per anni, perché qualche pubblico ministero non ha riflettuto sulle conseguenze della sua iniziativa avventata».

Ci sono tanti altri punti critici, altre “piaghe” che affliggono il Paese, il dissesto idrogeologico per esempio, eterno dimenticato, per il quale nella legge di bilancio 2025 è previsto un taglio dei contributi ai Comuni per 400 milioni di euro, oppure, ancora, i beni culturali, considerati da questo Governo e anche dai precedenti come una Disneyland, e non come elemento primario della nostra identità culturale. 

Ma è il tema dei migranti in questi ultimi giorni dell’anno a tenere banco su tutti. Non si è ancora risolta la vicenda dei costosissimi centri costruiti dall’Italia in Albania per l’identificazione e l’eventuale espulsione dei migranti soccorsi dalle autorità italiane nel Mediterraneo, una baracconata che costa allo Stato quasi un miliardo di euro. L’operazione, che ha esposto l’Italia al ridicolo, è stata in un primo tempo bocciata dai giudici in applicazione di una norma europea, quindi sovranazionale, i quali a loro volta sono stati messi sotto accusa dal Governo con un inaudito e veemente attacco. Ora la parola è passata alla Corte di cassazione, mentre i centri albanesi continuano ad essere vuoti. Ma la premier, che ha convocato un apposito vertice a Palazzo Chigi il 23 dicembre, non ammette il fallimento e orgogliosamente giura: «I centri in Albania funzioneranno. Dovessi passarci tutte le notti da ora alla fine della legislatura, funzioneranno!». 

Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, di fronte a un generale marasma nel quale si mischiano ingiustizie e malapolitica, ha detto che ci vuole una rivolta sociale. Apriti cielo! Dai banchi della maggioranza si è levata un’ondata di attacchi, travisando i concetti da lui espressi con il solito giochetto dell’estrapolare una frase da un concetto complesso. Lo hanno accusato di fare il capopopolo e di fomentare violenze nelle piazze, neanche avesse sostenuto – come nel disperato canto ottocentesco – che bisogna «tagliare la testa ai ricchi».

C’è del marcio in Italia, diremmo parafrasando Shakespeare, e a poco valgono i pur nobili ma felpati richiami del Capo dello Stato Sergio Mattarella alla classe politica. Per questo c’è davvero bisogno – come sostiene Landini – di una rivolta sociale capace di chiamare a raccolta intellettuali, studenti, lavoratori, tutte le persone di buona volontà che, deluse dalla politica, si sono rifugiate nel non-voto, per riportare l’etica al centro del vivere civile e della società. L’Italia non ha bisogno dell’uomo o della donna forte per risolvere i problemi che l’affliggono, alcuni comuni a tutte le democrazie occidentali, molti altri propri di un paese che non è mai stato coeso e che non è mai riuscito a realizzare pienamente una democrazia matura. Un movimento di partecipazione attiva, bene organizzato dal basso, forse, riuscirebbe a smuovere le coscienze assopite, a far emergere una classe dirigente all’altezza della situazione e a salvare il Belpaese dal baratro.

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Nel’immagine: Luciano Fabro, “L’Italia all’asta” (1994)



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