Valditara inserisce la Bibbia nei programmi di scuola: lascia perplessi l’ideologia dietro la scelta

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Quel che lascia perplessi nell’atteggiamento della destra non è tanto il desiderio di inserire nei programmi scolastici lo studio della Bibbia, ma l’ideologia che motiva questa scelta. Se infatti noi collocassimo questa riforma in una visione aperta e pluralista di quella riflessione sulle fondamenta culturali della cultura occidentale, allora nulla quaestio. Chi negherebbe che, nel bene e nel male, la Bibbia rappresenti uno dei pilastri di tale cultura? Né avrebbe senso negare che, qualsiasi cosa l’espressione voglia dire – ed è un tema di altissima complessità – esista una “cultura occidentale”, per quanto un certo postmodernismo un po’ sventatamente abbia sostenuto la liquidazione di tutte le culture.

Ma già qui affrontiamo un primo intoppo: cosa vuol dire ‘cultura’? L’antropologo postmoderno James Clifford scriveva che “quella di cultura è una idea profondamente compromessa di cui non riesco a fare a meno”: tutti noi usiamo costantemente questo termine, a volte a sproposito, soprattutto quando cerchiamo di costruirvi sopra un’idea binaria e manichea di superiorità rispetto ad altre culture. I propri dubbi Clifford li esprimeva in un libro che si intitolava icasticamente, riprendendo i versi di una poesia di William Carlos Williams, I frutti puri impazziscono. Da ciò possiamo inferire che le culture “non esistono”? Nient’affatto: esse esistono, ma sono processi negoziali in atto i cui confini sono mobili, porosi, continuamente stressati da modifiche e aggiustamenti. È cara all’antropologia la metafora della foto: le culture sono una foto scattata a una classe di bambini che si muovono continuamente. Ma soprattutto: il fotografo è anch’egli inquieto, come diceva un altro antropologo, Marco Aime. Orbene, il fotografo siamo noi, gli osservatori che non sono solo osservatori, ma sono dentro quella stessa dinamica che devono osservare e descrivere.

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Se tutto questo è vero, allora come decliniamo quel termine, cultura, conta. Se noi ne facciamo il vessillo di una forma di etnocentrismo aggressivo e acritico, ovvero di una posizione secondo la quale c’è una cultura superiore alle altre (quella occidentale, qualsiasi cosa voglia dire), allora ne stiamo facendo un cattivo uso. Un uso rispetto al quale avevamo fatto molti passi avanti, cercando di decostruire il nostro passato a partire da una riflessione critica interna all’Occidente stesso sulle colpe del colonialismo. Un uso rispetto al quale non è saggio fare passi indietro, tornando alle opposizioni manichee. Ma, abbiamo scritto, la risposta non sta neanche in una sorta di anything goes, atteggiamento un po’ superficiale che non tiene conto della potenza simbolica delle identità e rischia invece di offrire il fianco alla critica (nient’affatto infondata) secondo cui chi pensa che tutte le culture siano uguali se lo può permettere in ragione di una condizione di classe che gli permette di evitare i conflitti culturali che le società multietniche e multiculturali ci sottopongono.

Se le culture non sono tutte uguali, ma se d’altro canto non si può ragionare in termini di superiorità o inferiorità tra esse, qual è la risposta pluralista? L’idea che noi siamo affezionati alla cultura occidentale, o a quella versione di essa che si identifica con il tentativo di fondazione razionale di società fondate su diritti e democrazia. Siamo affezionati e non possiamo uscire da noi stessi. Noi, i fotografi, siamo imbevuti di quella cultura. Ma di cosa è fatta tale cultura? Non di un solo libro, non di una sola religione, e soprattutto quella cultura non si è cristallizzata né si cristallizzerà mai, né mai sarà catturabile da una singola foto.

Il punto è che dopo l’ubriacatura postmoderna, sono arrivate le nuove guerre per le identità, e il mondo – se in qualche momento degli ultimi decenni non lo è stato – si è fortemente polarizzato di nuovo. La cultura della destra è orientata dunque a una nuova guerra culturale contro ciò che caricaturalmente viene definito pensiero ‘woke’. Mettere la Bibbia tra i libri da studiare non mi pare dunque rientri in quell’ottica di apertura e pluralismo di cui si diceva, come uno dei grandi libri della tradizione occidentale. Né pare che lo spirito sia quello critico che necessariamente deve investire – la cultura questo è – qualsiasi cosa, fanti e santi.

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