Timothée Chalamet: «Mi aspetto l’endorsement di Francesco Totti»

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L’endorsement più famoso è quello di Bob Dylan stesso su X: «Timmy è un attore brillante, quindi sono certo che sarà perfettamente credibile a interpretare me». Poi c’è stato quello, sempre illustre, di Neil Young. E ora? Timothée Chalamet la butta sul ridere: «Quale endorsement aspetto adesso? Di sicuro quello di Francesco Totti. Dove diavolo è? Spero che veda il film». Il riferimento è appropriato: siamo a Roma, patria del Pupone. L’occasione è la conferenza stampa di presentazione di A Complete Unknown, il film (nelle sale dal 23 gennaio) diretto da James Mangold che racconta, nei primi anni Sessanta, l’ascesa alla fama del giovane Dylan, interpretato dal divo Chalamet, che con questa interpretazione punta dritto all’Oscar.

Monica Barbaro, Timothée Chalamet , Edward Norton e il regista James Mangold a Roma.

Anadolu/Getty Images

Il film si apre sull’arrivo al Village del ragazzo del Minnesota, carico solo di uno zainetto, una chitarra e un’infinita voglia di esprimersi attraverso la musica. È una storia di formazione, il racconto di come un artista si sia creato da zero, con le canzoni, la sua poetica, la determinazione a infrangere le barriere tra i generi, ma anche con le storie inventate sul suo passato, come quella della sua esperienza in un circo. Ed è quel che Timothée Chalamet si augura arrivi ai ragazzi: «La mia lezione ai giovani? Al di là di lezioni politiche e sociali credo che debbano imparare a non rinunciare, ad autocrearsi proprio come ha fatto Dylan, inventarsi, non farsi limitare da chi si è o si è stato: trovare il proprio spirito creativo, il proprio nome e la propria arte. Dylan aveva tante storie da raccontare, ha cambiato vari nomi».

Si prova a indagare i punti di contatto tra il musicista e l’attore, per primo il più evidente: la fama vasta che ti trasforma in idolo per le masse. Ma Chalamet sfugge i paragoni, forse per rispetto, forse per riservatezza. C’è però una cosa che si augura per sé: «Lui non aveva archetipi, miti che voleva inseguire, man mano che andava avanti diventava quello che voleva essere». Per interpretare questo ruolo, Chalamet aveva quattro mesi ma poi – per via della pandemia e di altri ritardi – ha avuto a disposizione cinque anni. «Ci sono voluti cinque anni e mezzo di preparazione per questo film, in questo tempo ho acquisito fiducia in me rispetto al materiale di partenza», racconta l’attore. «Abbiamo dato il 150% di noi stessi, sono orgogliosissimo del lavoro di grande concentrazione che abbiamo messo nel progetto. Del resto, avevo due mesi e mezzo per essere Dylan e il resto della vita per essere me stesso».

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James Mangold, già regista del biopic su Johnny Cash Quando l’amore brucia l’anima, mette in scena il periodo compreso tra l’arrivo mitologico di Bob Dylan al Village e la svolta elettrica del 1965 che fece infuriare i puristi del folk al Festival di Newport, evento che segnò anche la sua prima metamorfosi e il suo primo atto di ribellione verso le aspettative e le etichette degli altri. Il regista spiega lo spirito che ha animato il suo lavoro, ad alto rischio di deludere o far arrabbiare i fan. «Dylan è un favolista. Ma chi non lo è in fondo? Ognuno di noi si reinventa la propria vita per sopravvivere. Ho parlato con Dylan. Ho letto tutti gli articoli, i documenti d’epoca, le interviste: tutti si contraddicono a vicenda. Tutti i testimoni tendono a mettersi al centro della scena», racconta Mangold. Dunque, cosa fare? «La ricerca della verità qui non è legata solo a Bob Dylan che racconta storie su di sé, ma anche a noi che cerchiamo di aggiustare quelle vicende. Quindi ho cercato soprattutto di trovare il tono, la vibrazione della verità. Cercare quella sensazione che c’era per esempio nello studio di registrazione, prima che quelle persone diventassero famose».

In questo, il lavoro con gli attori è stato fondamentale: «Ci sono due tipi di lavoro qui: quello esteriore, che riguarda l’aspetto, la voce, e la gestualità; e poi quello interiore. Avevo paura che il primo, visto che è così affascinante – parliamo di queste persone e degli anni Sessanta – prendesse il sopravvento sulla parte interiore. Ho cercato per tutte le riprese di stare attento a questo bilanciamento».

Se Chalamet non ha conosciuto Dylan, Monica Barbaro invece ha parlato con la vera Joan Baez, che nel film vive una storia d’amore e di passione burrascosa con il musicista. «È stato difficile non avere sempre in mente la volontà di essere il più accurata possibile nel rappresentare Joan Baez, perché ci sono i suoi fan ai quali vuoi essere riconoscibile, ma a un certo punto è stata la stessa Joan a dire: se la perfezione, perdi la parte interessante. E così, anche dal regista siamo stati incoraggiati a non fare una biografia, una pagina di Wikipedia, anche perché lei è viva e può parlare di sé, abbiamo avuto la libertà di essere umani e di abbracciare il momento. Ho visto Tim fare un lavoro fantastico e mi sono fidata dell’orchestrazione che Jim ci ha dato, abbiamo messo da parte la riconoscibilità e colto il momento».

In A Complete Unknown, Edward Norton interpreta il musicista folk Pete Seeger, mentore del giovane Dylan, che conosce all’ospedale dove è ricoverato Woody Guthrie e che introduce nella scena dei club di New York. Se Chalamet suona la chitarra e ha registrato tutte le canzoni in presa diretta, anche Norton suona il banjo. La chiave di accesso al ruolo, racconta, è stata YouTube: «Mi ci sarebbe voluto un anno di lavoro vent’anni fa per mettere insieme interviste, concerti mentre oggi su trovi tutto online, anche il concerto in un caffè di Berlino del ‘63. È incredibile quanto puoi la facilità con cui puoi avere accesso a tutto il materiale; mi è stato molto utile perché mi ha permesso di ingerirlo. Il nostro regista che è anche un ottimo psicoterapeuta ci ha detto “abbandonate la storia, dimenticatevi la fama, raccontate la storia di un giovane che incontra uno che ammira enormemente e allo stesso tempo in qualche modo è in competizione con lui, dimentichiamoci del resto”».



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