SCENARIO CONSULTA E GIUDICI/ Ecco la riforma che può restituire il “pallino” al Parlamento

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L’accordo sui 4 giudici da mandare in Corte costituzionale non c’è e il Parlamento si riunirà nuovamente in seduta comune il 23 gennaio, ossia dopo che lunedì la Corte, composta attualmente di 11 membri (il minimo legale), si sarà pronunciata sui referendum, a cominciare da quello riguardante l’abrogazione dell’autonomia differenziata. Se finora ogni mediazione è fallita un motivo c’è, e non riguarda soltanto la difficoltà di trovare un accordo sui nomi (Forza Italia) o sul giudice tecnico. Dipende piuttosto dal fatto che la Corte costituzionale è diventata un organo la cui discrezionalità politica, aumentata a dismisura, fa concorrenza al Parlamento.



Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma, paragona i giudici di Palazzo della Consulta “agli antichi collegi pontificali”.

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E l’autonomia differenziata? Se volesse, il Parlamento potrebbe ancora capovolgere a suo vantaggio i rapporti di forza. Una soluzione ci sarebbe: estrema, se vogliamo, ma logica.



Niente da fare: il Parlamento non trova l’accordo sulla scelta dei nuovo giudici costituzionali. Da che cosa dipende questa difficoltà?

Innanzitutto va detto che la Costituzione del 1948 si limita a prevedere che un terzo dei membri della Corte venga nominato dal Parlamento in seduta comune, senza alcuna indicazione sulla maggioranza necessaria, che quindi, in linea teorica, poteva ritenersi quella semplice di cui all’art. 64, co. 3, della Costituzione.

Ma oggi servono maggioranze qualificate.

Sono state stabilite prima da una legge ordinaria del 1957 e, in seguito, da una legge costituzionale del 1967. Questo per dire che sono tutto fuorché intoccabili e “costituzionalmente necessarie”. Credo che le difficoltà, peraltro non nuove, nell’individuazione di nomi che raggiungano la maggioranza dei tre quinti debba farci riflettere sul valore e sulla funzione della nomina parlamentare. Nomina, ripeto, non elezione!



L’impasse è un problema di metodo, cioè l’accordo politico mancante, o di merito, vale a dire i nomi da mandare in Corte?

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È piuttosto un problema di metodo, generato dalle profonde trasformazioni subite sia dalla forma di governo, sia dalle funzioni della Corte costituzionale. Non è un caso se di recente si è tornati a discutere della posizione della Corte, interna o esterna, rispetto alla forma di governo. Non è soltanto o prevalentemente una disputa teorica.

Perché dice questo?

Perché è davvero difficile sostenere che la Corte costituzionale di oggi corrisponda al modello delineato, sia pure solo genericamente, dall’Assemblea costituente. Allora si pensava davvero ad un organo di garanzia di carattere giurisdizionale, che vagliasse gli atti legislativi alla luce delle disposizioni costituzionali, astenendosi da valutazioni politiche. Da allora molto è cambiato ed è chiaro, solo per menzionare il profilo più elementare, che quel modello poteva funzionare bene con riferimento alle leggi pre-costituzionali.

Invece?

Quando si mettono le mani su scelte frutto dei molti compromessi repubblicani, via via sempre più precari ed incerti, l’applicazione di una Costituzione che contiene molte “direttive politiche”, e non solo limiti nei riguardi dei pubblici poteri, agevola l’intervento della Consulta nel merito delle scelte, quasi in funzione di co-legislazione.

Due giudici proposti dal centrodestra, uno dal centrosinistra e un tecnico gradito ad entrambi gli schieramenti. È o no una soluzione accettabile?

I lineamenti dell’accordo iniziale erano e sono un modo per raggiungere la maggioranza qualificata: paradossalmente, il “quarto” finisce per avere una legittimazione ancora più solida. Ma, ripeto, per chiarire bene i termini della questione occorrerebbe affrontare senza pregiudizi il tema della natura della nomina parlamentare. Dirò di più: come ho avuto occasione di segnalare, un disegno di riforma istituzionale dovrebbe affrontare anche questo aspetto.

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Ci può spiegare meglio perché questa crisi nella nomina dei giudici è l’effetto del mutato profilo della Consulta? 

Partiamo dal recentissimo caso dell’autonomia differenziata: la sentenza della Corte, estremamente articolata e complessa, non ha soltanto espunto le disposizioni giudicate incostituzionali, ma ha indicato le condizioni per la conformità a Costituzione di ogni futura legge di attuazione di tale istituto. Tra conformità e non contrarietà corre tutto lo spazio della discrezionalità politica. Per non dire della celebre vicenda del cosiddetto suicidio assistito.

In questo caso dove sta la discrezionalità politica?

Abbiamo assistito alla fissazione di un termine al legislatore per un intervento “in prima battuta” e con riserva di sindacato sulla legge eventualmente approvata, prevedendo, in difetto, un intervento suppletivo della stessa Corte. Insomma, pensare di poter considerare queste decisioni come deduzione logica dalle norme costituzionali, mi pare davvero difficile.

Dunque la Corte costituzionale si è politicizzata. È un fatto soltanto italiano?

No. In tutti gli ordinamenti europei c’è una tendenza alla sovraesposizione politica della giurisdizione, a fronte di un arretramento delle sedi classiche di elaborazione e di attuazione dell’indirizzo politico. Tale arretramento, a sua volta, è causato anche da una scomposizione delle ideologie di riferimento e dalla sovrapposizione della cosiddetta “democrazia del pubblico”.

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Quanto conta oggi la Corte costituzionale nei rapporti con l’Unione Europea?

Con riferimento all’Europa, il ruolo della Corte in Italia è stato di primario rilievo: tutta la costruzione, delicata e per molti versi fragile, elaborata per dare un qualche fondamento costituzionale a scelte che incidono profondamente sulle forme e sui limiti di esercizio della sovranità popolare è stata concepita e sviluppata a Palazzo della Consulta, attraverso un dialogo, spesso conflittuale, con la Corte di Giustizia europea.

Siamo d’accordo che la Corte costituzionale ha assunto un ruolo sempre più politico, ma è evidente che i 15 giudici non rendo conto a nessuno delle loro decisioni “politiche”, a differenza dei rappresentanti eletti dal popolo.

Ho l’impressione che alla Corte costituzionale si chieda molto più di quanto essa possa legittimamente fare. L’idea che dalla Costituzione sia possibile trarre sempre una soluzione correttiva o surrogatoria della decisione politica significa attribuire all’interpretazione costituzionale, e agli interpreti “ufficiali”, una funzione prevalente rispetto a quelle degli altri organi costituzionali. Direi con tratti simili a quelli degli antichi collegi pontificali…

La sentenza 192 ha di fatto restituito al Parlamento una legge che dell’autonomia di partenza ha mantenuto ben poco, e che il referendum potrebbe abrogare del tutto. Il Parlamento potrebbe ancora ribaltare l’esito di questi nuovi “rapporti di forza”?

Una soluzione logica consisterebbe nella modifica dell’art. 116 della Costituzione, che lascia molto a desiderare dal punto di vista sia della concezione, sia della formulazione. Ma vale per gran parte dei cambiamenti intervenuti con la riforma del Titolo V del 2001.

Oggi conta di più mandare un parlamentare in Corte costituzionale o avere più poltrone nelle camere? 

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Mi verrebbe da dire, con una boutade, che conviene piuttosto avere un parlamentare in Corte. Se pensiamo che il mandato dura nove anni…

(Federico Ferraù)

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