Quando la giustizia tradisce – Il Roma

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Se John Grisham e il titolo ‘Incastrati” indirizzano verso un libro di fiction, l’altro nome, Jim McCloskey, fondatore della prestigiosa e nobile Centurion Ministries, e il sottotitolo “Storie vere e incredibili di condanne ingiuste”, lo collocano inevitabilmente tra le non fiction, senza togliere nulla a un’opera di alta narrazione. Il volume è uscito in Italia per Mondadori e la lettura, anche per chi pratica le cause della giustizia penale, provoca una lacerante frustata che dura per tutto il tempo necessario, e pure dopo.

Nella prefazione si legge che esso vuole essere di “stimolo allo spirito d’iniziativa politico di cui la società avrebbe bisogno per cambiare le leggi, le prassi e le procedure inique che sono alla base di ogni condanna ingiusta” e, a questo proposito, ritengo che tra i doveri alti della letteratura vi sia anche quello di sensibilizzare i lettori riguardo ai pericoli e alle storture della giustizia penale, con le tragiche conseguenze che queste hanno sulla vita delle loro vittime.

Già Leonardo Sciascia sosteneva che “nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprendesse” e non è un caso se un recente sondaggio, condotto da Alessandra Ghisleri per La7, ha dimostrato che “Gli italiani hanno paura della giustizia”. Con le dieci cronache di dirompenti errori giudiziari descritte nelle 365 pagine del libro, Grisham e McCloskey adempiono benissimo all’impegno politico perseguito e, alla fine, il lettore non ne esce più lo stesso.

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Il libro riferisce di alcuni gravi episodi di ingiustizia procurati dai diversi sistemi processuali vigenti negli Usa (specialmente di quegli Stati tradizionalmente conservatori), pur diversi dal nostro, ma che comunque consentono di riflettere riguardo a quest’ultimo, il quale soffre degli stessi pregiudizi; arranca per analoga superficialità; perde credibilità a causa dell’arroganza di alcuni che esercitando il potere giudiziario, lasciano che esso sfoci in una pretesa superiorità etica, necessaria a giustificare l’invincibile certezza che non ammette l’errore.

Vizi che, soprattutto nel privato, segnano la coscienza di molti di coloro che conoscono o sospettano simili ingiustizie e che riguardano il singolo e la sua cultura, coinvolgendone il profilo eticoprofessionale. Un altro aspetto del libro impressiona molto: le foto dei protagonisti, i visi delle vittime: li cogliamo al tempo dell’accusa e di quando, diversi decenni dopo, si vedono riconosciuta l’ingiustizia della condanna.

L’attenzione, però, va a quello che non si vede: la lunghissima dolorosa parentesi che racchiude il prima e il dopo; la sofferenza delle madri, quella dei padri, dei rispettivi mariti e mogli, dei figli; infine, da quelle immagini si intuiscono gli amori infranti e i sentimenti soffocati, per i quali si coglie il definitivo rimpianto. Vite assenti e perse, rinchiuse in uno spazio senza tempo, che nessuno vuol vedere, ma delle quali il “popolo” ha la responsabilità. Lo stesso avviene in Italia: anche noi facciamo finta di non accorgerci delle ingiuste detenzioni e condanne, nonché dei numerosi suicidi che accadono nelle carceri; così tentiamo di difendere l’anima dai tragici sensi di colpa che potrebbero annichilirla.

Altre domande perseguitano costantemente il lettore: come sarebbe stata la vita di quel condannato se i poliziotti, il falso testimone prezzolato con promesse di impunità, il pubblico ministero e il giudice non si fossero incaponiti contro di lui, accecati dal pregiudizio, dalle vantaggiose promesse, dal desiderio di successo, dalla vanagloria? Come sarebbe stata, senza quell’errore, l’esistenza dei suoi cari? Come Emmanuel Carrere, c’è chi sostiene che fare la storia con i se è intollerabile; che praticare l’ucronia è ingenuo e arbitrario; che addirittura il solo proporla speculativamente genera confusione. I dieci racconti proposti, con le tantissime altre simili storie che inutilmente emergono anche dalla nostra cronaca, smentiscono quella tesi e impongono di fare i conti con quei “se”.

Aggiungendo l’obbligo di porsi il più decisivo quesito riguardo i limiti e il metodo che i protagonisti del giudizio penale devono imporsi per evitare inutili sofferenze all’Uomo: fino a che punto può spingersi il diritto di alcuni di sacrificare l’esistenza di tante vite? Quale è il confine a tanto dolore? Qual è il metodo sicuro e la competenza necessarie affinché quell’afflizione non la si provochi ingiustamente? Se il processo penale non può mai assicurare la verità – e forse non la si può neanche consapevolmente perseguire – davanti alla carcerazione preventiva o a una condanna, il sentimento di umanità impone di chiederci se in quel caso la verità non sia stata sacrificata, perché “La prigione è un posto orribile anche per chi la merita. Per un innocente è un incubo inconcepibile e senza fine”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA





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