La sfida di Trump a nemici… e amici

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La grande partita politica della sua seconda presidenza si gioca sulla Russia. Riuscirà Donald Trump a riunificare l’Occidente euroatlantico all’Occidente euroasiatico? È ciò che più conta per noi. Trump non è Ronald Reagan e i tempi sono molto diversi. Non solo. le scelte prioritarie comprese nella serie delle ordinanze esecutive, colpisce subito ciò che manca: l’impegno ecologista.

Il deficit di coscienza ambientalista, ch’è la massima necessità di una umanità che si moltiplica e inquina a ritmi suicidi, è purtroppo diffuso tra i leader delle nazioni più potenti ed irresponsabili. Primato negativo nella distruzione del pianeta agli Stati Uniti, alla Cina e all’India.

Seguite, sempre a meno distanza, da Paesi in via di ipersviluppodemografico, siano essi poveri come un Bangladesh oppure ricchi di materie prime e in via d’industrializzazione come alcune neo-potenze regionali asiatiche e africane. Trump si conferma coerente con le sue promesse elettorali: freno all’immigrazione clandestina dalle frontiere con il Messico e col Canada; reindustrializzazione degli Stati Uniti; contenimento della Cina attraverso il contrasto a un imperialismo commerciale che s’accompagna al riarmo e sviluppa l’egemonismo strategico; ripresa del dialogo con la Russia in funzione delle risorse dell’Artico e del contenimento cinese (collaborazione ardua, quest’ultima, dopo tre anni di conflitto in Ucraina); responsabilizzazione degli alleati europei sui costi della sicurezza; primato della presenza Usa nei teatri (come lo spazio, i Poli, le terre produttive, le acque) e nei campi (come quello dell’intelligenza artificiale) nei quali si gioca la partita del futuro.

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E molto altro ancora. Dalla realizzazione dei cento decreti esecutivi preannunciati e dalla risposta dell’economia e della finanza otterremo le prime risposte dalla seconda presidenza Trump. Il passaggio di consegne alla Casa Bianca è stato inaugurato da un cessate-il-fuoco a Gaza che spalanca gravi incognite, se non sarà mirato alla prospettiva di uno Stato palestinese. E nel Vecchio Continente s’è accompagnato ai reiterati e colpevoli silenzi dei vertici dell’Ue.

Stavolta è toccato a Croazia e Romania. Niente notizie e nessun commento sul presidente della Croazia, Zoran Milanovich, rieletto con circa il 77,8% dei consensi: politicamente ‘parente’ al premier slovacco Robert Fico, in quanto entrambi socialdemocratici e contrari ad alimentare d’armi il regime di Kiev, perché ritengono allontani il negoziato di pace con Mosca e possa innescare una tragica deriva nucleare.

E silenzio sulle nuove manifestazioni di protesta in Romania, con centinaia di migliaia di rumeni in piazza a Bucarest: reazioni provocate dalla decisione, da parte di una screditata Corte costituzionale, di annullare il voto che al primo turno delle presidenziali aveva portato alla vittoria relativa Calin Georgescu, il quale avrebbe dovuto sfidare nel ballottaggio la liberale Elena Lasconi. Anche Georgescu critica il sostegno militare a Kiev.

Per l’Europa il dilemma è se aggrapparsi al carro americano oppure procedere gradualmente sulla strada di una maggiore autonomia dall’alleato Usa. Della “rivoluzione” di Trump non possiamo prevedere la resa né gli sbocchi. Bismarck sosteneva che le previsioni non potessero superare i sei mesi. Coi tempi frenetici attuali le previsioni sulle lunghe distanze appartengono ai chiromanti.

Sappiamo solo tre cose: 1) che il presidente uscente Joe Biden è stata una sciagura perché, assieme al premier britannico Boris Johnson, ha spinto invece di frenare lo scontro in Ucraina; 2) che la stagione di una nuova presidenza Usa può, sì, contagiarne alcune future ma anche spegnersi in un paio d’anni, fino alle elezioni di midterm nelle quali si gioca la maggioranze alla Camera e al Senato; 3) che il nostro Vecchio Continente vive la sua peggiore stagione dal 1991.

Il conflitto in Ucraina, infatti, priva l’Europa delle risorse energetiche sicure e a costi contenuti provenienti dalla Russia, necessarie in questa fase di passaggio verso nuove energie ‘pulite; ne esalta le divisioni invece d’armonizzarle; la espone agli effetti delle tempestose ricerche di nuovi equilibri internazionali da parte dei massimi attori planetari. La guerra ha inceppato il suo ‘motore’ principale, la Germania: privata della sponda di una Francia in crisi e sacrificata sia ai disegni Neocon sul futuro dell’impero russo e delle sue ricchezze, sia alla storica diffidenza anglosassone verso i ‘giganti’ europei.

E c’è un altro importante aspetto da considerare. L’ex-neo presidente americano deve tener conto di chi l’ha votato riportandolo alla Casa Bianca. I dati elettorali finali confermano i primi, lanciati alla vorace curiosità,ma riservano qualche sorpresa. Rivelano che il consenso maggiore Trump l’ha raccolto nella fascia meno ricca degli elettori, segnatamente tra gli operai e i nativi (i pellerossa). Ha conservato la maggioranza assoluta dei votanti bianchi, scivolando però di un paio di punti percentuali: dal 59% al 57% circa.

Una curiosità: negli Usa ha origini più o meno italiane un terzo dei parlamentari, sparso sui due fronti, ma gli italo-americani si sono riversati su Trump per i due terzi circa (fatta eccezione per la sua New York). Trump ha registrato un piccolo recupero tra i neri. Buono il raccolto tra gli ispanici. E discreto quello tra i votanti di origine araba, mentre gli ebrei si sono rivelati ancor più filo-democratici (dal 76% al 78%), superati solo da neri (all’85%) e Lgbt (un 86% che spiegherebbe in parte l’accresciuto consenso dei maschi arabi per il candidato Rep).

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Per Trump significa rimettere in moto l’industria e sviluppare la corsa spaziale; rafforzare il controllo delle rotte marine e le ‘fortezze’ proprie e degli alleati; dismettere rapporti ormai obsoleti e allacciarne di nuovi, pure con nemici divenuti meno infidi o avversari dei propri nemici.

La scomparsa eventuale di un Khamenei riaprirebbe la via indoeuropea dell’Iran, chissà… Insomma, Trump mostra di avere un solo, vero obiettivo che ne riassume tutti gli altri: fare gli interessi degli Stati Uniti. Importa poco o punto che un alleato sia stato o meno alla corte di Biden, conta che resti nella scia dell’America. Oggi la sua America.

L’invio a Kiev, agli sgoccioli della presidenza Biden, di nuove armi e forse denaro risucchiato dai depositi russi sequestrati, pare scontrarsi con il tic-toc di Vladimir Putin alle porte della Casa Bianca per un vertice. Distensivo non arrendevole. E al sostegno dei leader europei al regime di Kiev, Trump si degnerà di concedere un applauso e un sorriso oppure farà spallucce, a seconda che serva o sia inutile agli Stati Uniti.





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