l’ultimatum di Zaia fa tremare il governo

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Se ci sarà la possibilità di un terzo mandato, Luca Zaia non ci penserà un minuto di più: si ricandiderà per la presidenza della regione Veneto. E se non dovesse essere lui, la Lega non farebbe mezzo passo indietro: ci sarà un nome di un leghista. O meglio: un candidato indicato da Zaia per garantire massima competitività. Costi quel che costi. «Possiamo correre da soli», riecheggia nella conferenza stampa.

E per il centrodestra il conto sarebbe salato: una fibrillazione così intensa in territorio veneto potrebbe avere ricadute direttamente sulla tenuta del governo.

Il leader della Lega, Matteo Salvini, è infatti allineato al collega di partito. Non potrebbe fare altrimenti. Il rischio, in caso di arretramento alle richieste di cessione del Veneto fatte da Giorgia Meloni, è quello di mettere davvero in discussione la sua leadership.

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Obiettivo candidatura

Zaia ha messo le cose in chiaro. All’insegna dello slogan dal sapore trumpiano, «Veneto first», viene ricordato un fatto storico: «All’inizio del mio impegno politico, a Treviso, ho già corso e vinto contro il resto del centrodestra». Un ammonimento: lo ha fatto una volta, potrebbe fare un bis, seppure per interposta persona.

L’identikit dell’ipotetico erede è quello di Elisa De Berti, attuale vicepresidente della giunta e assessora alle Infrastrutture. O in alternativa l’assessora alla Sanità, Manuela Lanzarin.

Due profili accomunati dalla stima che il presidente della regione gode nei loro confronti. Più complicata la strada che porta al mediaticamente irruento Roberto Marcato (assessore allo Sviluppo), che pure non disdegna l’ipotesi: «Ho fatto tutto il cursus honorum, da consigliere comunale ad assessore».

Ormai il Veneto «non è della Lega, ma di Zaia», ammettono in privato anche i più incalliti salviniani. Anche se, per inciso, c’è da rimuovere un ostacolo per indicare l’eventuale sostituto: la cancellazione del limite di mandati previsto per gli assessori veneti. Ma è una questione superabile con un voto in consiglio regionale. Ed è già iniziata un’interlocuzione.

Il Doge, come è stato ribattezzato da tempo, ha comunque abbandonato il fioretto e ha afferrato la sciabola. Meloni è avvisata.

«Non sono io ma i veneti a chiedere una mia ricandidatura. Cosa mai successa nella storia a un governatore», dice il presidente della regione. Sul terzo mandato bisogna attendere il pronunciamento della Consulta dopo che il governo ha impugnato la legge voluta in Campania da Vincenzo De Luca che cancellava il tetto dei due mandati.

«A sostenerlo sono proprio i politici che non devono rispettare alcun limite di mandato», accusa Zaia.

L’obiettivo dell’offensiva è compreso in un fazzoletto di terreno, al centro di Roma, tra palazzo Chigi e ancora di più via della Scrofa, dove è di stanza la dirigenza nazionale di Fratelli d’Italia.

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Nessun «candidato inamidato arrivi qui», è la posizione di Zaia. Un alt ai meloniani: su tutti Raffaele Speranzon, il profilo che più di tutti Fratelli d’Italia vorrebbe spingere sulla poltrona di Palazzo Balbi, sede della regione Veneto. Di Flavio Tosi, eurodeputato di Forza Italia ed ex sindaco di Verona, nemmeno a parlarne. È un arcirivale.

Arrivati a questo punto Salvini non può prendere le distanze dal governatore. «Non può non sposare la linea di Zaia», ragiona Carlo Calenda, leader di Azione, commentando le tensioni del centrodestra in Veneto.

E chi conosce le dinamiche leghiste mette sul tavolo un’osservazione: Zaia non può essere messo alla porta alla stregua di un dissidente qualsiasi, come è avvenuto per esempio con Paolo Grimoldi, ex segretario della Lega in Lombardia, cacciato per le critiche verso la leadership e per aver reso noto che Umberto Bossi ha votato Forza Italia alle ultime europee.

«Zaia ha ragione, come sempre. Ma purtroppo i numeri sul terzo mandato non sono dalla nostra parte. Siamo gli unici a favore», è il ragionamento che circola nell’inner circle salviniano.

Ma non è una resa: se non c’è il terzo mandato «si va da soli», è il mantra.

Effetto nazionale

Il discorso si sposta sull’equilibrio politico: bisogna tenere insieme diversi partiti. E FdI non può diventare l’asso pigliatutto del centrodestra. «Non conviene nemmeno a Meloni arrivare allo showdown per provare a togliere a un alleato così importante la regione-simbolo», raccontano dai vertici leghisti.

C’è una convinzione radicata: una lista Zaia, anche se non dovesse essere lui il candidato alla presidenza, sarebbe vincente contro una coalizione di centrodestra «con almeno il 45 per cento». Ma con il risultato di produrre una lacerazione nell’alleanza, costretta a viaggiare a braccetto a Roma e guardarsi in cagnesco in Veneto. «Sono cose da Pd e 5 Stelle», è la battuta che viene consegnata a Domani da un dirigente leghista di rango.

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Sarà che mancano almeno dieci mesi o addirittura più di un anno (in caso di voto nella primavera 2026), ma i toni sono infiammati. L’offensiva leghista è «un fuoco di paglia», secondo Lucas Pavanetto, capogruppo di FdI in Consiglio regionale veneto, sbeffeggiando il suo presidente di regione. A brigante, brigante e mezzo. Alla minaccia di corsa solitaria della Lega, Pavanetto rilancia. «Ci sarebbero conseguenze a Roma», incalza. Leggasi: traballa il governo. Dal Veneto al voto delle politiche è un attimo.

Ma Zaia ha fatto un passo troppo ardito nella direzione di una ricandidatura, o comunque da un ruolo di protagonista nel suo Veneto, per rimangiarsi tutto con uno strapuntino da sindaco di Venezia, dove vorrebbe parcheggiarlo Fratelli d’Italia, sarebbe uno schiaffo. La via d’uscita, però, potrebbe esserci. Fratelli d’Italia ha la legittima «aspirazione di avere un presidente suo anche nel nord», ha detto il capogruppo di FdI, Lucio Malan. Non per forza il Veneto, insomma.

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