Leoni da tastiera, vigliacchi senza volto: Seymandi dichiara guerra

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L’aula del tribunale di Torino, gremita di avvocati e giornalisti, è stata ieri il palcoscenico di un dibattito che supera il semplice caso giudiziario per toccare temi più ampi, come il limite della libertà di espressione e la responsabilità delle piattaforme social. Cristina Seymandi, imprenditrice torinese al centro di uno scandalo mediatico scatenato dal clamoroso annullamento del matrimonio con Massimo Segre, ha scelto di non arrendersi di fronte agli attacchi subiti sul web. Con l’assistenza del suo legale, l’avvocato Claudio Strata, ha ribadito la necessità di perseguire penalmente coloro che, nascosti dietro falsi profili, l’hanno minacciata e insultata.

Strata, durante l’udienza davanti alla gip Lucia Minutella, ha preso la parola con un appello diretto: «Credo sia giunto il momento di fare qualcosa per stanare questi vigliacchi. Leoni da tastiera che colpiscono persone indifese, che a loro insindacabile giudizio devono essere, chissà perché, danneggiate. La procura non può più tollerare che queste gravissime aggressioni restino impunite». Una posizione che si scontra apertamente con la richiesta di archiviazione avanzata dal pm Roberto Furlan, secondo cui il contesto digitale ha caratteristiche peculiari che rendono meno gravi gli insulti rispetto a quelli pronunciati di persona.

Cristina Seymandi, ex collaboratrice politica e figura di spicco nel mondo imprenditoriale torinese, era finita al centro di un vortice mediatico nell’estate del 2023, quando il fidanzato Massimo Segre, noto banchiere e commercialista, aveva deciso di annullare il matrimonio in modo tanto spettacolare quanto discutibile.

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Durante una festa organizzata per annunciare le nozze, Segre aveva preso il microfono per rivelare presunti tradimenti da parte della compagna, un gesto che non solo aveva infranto l’intimità della loro relazione, ma aveva anche scatenato una campagna d’odio sui social contro Seymandi.

Gli insulti non si erano limitati a critiche pungenti o commenti sarcastici. Tra le frasi emerse ieri in tribunale, alcune avevano contenuti espliciti e minacciosi: “Vorrei che ti spezzino le gambe”, oppure “Vergognati, donna senza dignità”. Insulti che, secondo il pm Furlan, rientrano in quella “zona grigia” del dibattito pubblico che i social media hanno contribuito ad ampliare. «Occorre tenere conto della mutata sensibilità della società – ha scritto Furlan nella sua richiesta di archiviazione – la quale, con l’uso dei social, è divenuta maggiormente incline a commentare anche con toni robusti, sarcastici, polemici e inurbani». Il magistrato ha inoltre sottolineato come, nel mondo digitale, risalire agli autori di tali commenti sia spesso impossibile, data la proliferazione di profili anonimi.

L’avvocato Strata ha contestato questa interpretazione, definendola pericolosamente permissiva. Ha ricordato come Seymandi non abbia mai cercato pubblicità né voluto rendere pubblici i dettagli della sua vita privata: «Quella vicenda l’ha subita e non ha alcuna intenzione di trarre vantaggi economici da questa battaglia. Qualsiasi risarcimento sarà devoluto in beneficenza, per sostenere le donne meno fortunate di lei e dare un chiaro segnale che certe condotte non possono essere tollerate».

Mentre la gip Minutella si riserva di decidere nei prossimi giorni, il caso Seymandi ha già acceso un ampio dibattito pubblico. Da un lato, c’è chi sostiene che il mondo digitale richieda una maggiore tolleranza verso i commenti, anche aspri, che nascono in contesti di forte esposizione mediatica. Dall’altro, si alza la voce di chi chiede giustizia per le vittime di campagne d’odio, sottolineando come l’anonimato non debba diventare una scusa per diffamare e minacciare impunemente.

Seymandi, nel frattempo, ha scelto di reagire. Dopo aver superato lo choc iniziale, l’imprenditrice ha dichiarato di voler mettere la sua esperienza al servizio di altre donne, annunciando l’intenzione di scrivere un libro il cui ricavato sarà destinato a progetti a sostegno di chi vive situazioni di vulnerabilità. «Non si può restare in silenzio davanti a certi attacchi. Voglio trasformare questo dolore in un’azione concreta», ha confidato in una recente intervista.

Questa vicenda, che inizialmente sembrava confinata alle cronache rosa e alle polemiche sui social, si è trasformata in un caso di rilevanza giuridica e sociale. Mentre la giustizia valuta i limiti della libertà di espressione nell’era digitale, il caso Seymandi pone una domanda cruciale: quanto siamo disposti a tollerare in nome della modernità? Insomma, la battaglia di Seymandi non è solo la sua; è quella di tutti coloro che credono in un dibattito civile e rispettoso, anche – e forse soprattutto – nel mondo virtuale.

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