Nel primo semestre la produzione metalmeccanica è calata del 3,7%, trainata al ribasso dalla crisi dell’automotive. Per molti è colpa del Green Deal, il piano Ue per fermare la fabbricazione di auto con motore termico. Ma i numeri suggeriscono che la questione è più complessa. E che gli incentivi per l’elettrico, oltre alle colonnine di ricarica, hanno un ruolo essenziale.
Il 2024 è stato un anno a dir poco difficile per l’industria italiana, in particolare per il settore della meccanica. In realtà le cose sono andate piuttosto male in tutta l’Ue, Germania in primis, e visto che i cali più pesanti hanno riguardato l’industria automobilistica, da più parti si sono levate voci in favore di una revisione del Green Deal, in particolare della direttiva europea che mette al bando i motori termici entro il 2035. Ma vediamo cosa dicono i numeri e quello che si prospetta per il futuro.
I dati parlano chiaro
Partiamo dai dati pubblicati da Federmeccanica nella consueta indagine trimestrale resa nota a settembre. La produzione industriale italiana ha registrato un -0,8% nel secondo trimestre dell’anno rispetto al precedente e -1,7% nel confronto con il 2023. L’industria tricolore sta dunque rallentando e a portarla giù è soprattutto l’automotive. Come si vede nella Figura 1, rispetto al 2023 il calo produttivo del settore metalmeccanico è stato del 3,7%. Se si va a guardare il dettaglio, il fattore trainante è stato quello dell’auto, calato addirittura del 16,2% a fronte, ad esempio, di una riduzione del 3,8% dei macchinari e apparecchi meccanici.
L’area Ue è in sofferenza
Non è un problema solo italiano. In Germania, la produzione industriale si è ridotta in termini congiunturali dell’1,9% nel primo trimestre e dell’1,3% nel secondo. Non se la passa meglio la Francia: dopo il -3,5% del primo trimestre (sempre su base congiunturale, cioè rispetto ai tre mesi precedenti), nel secondo il risultato è stato ancora negativo (-1,2%). Tra le prime economie dell’area euro, ha fatto un po’ meglio solo la Spagna: +1,2% nel primo trimestre, mentre nel secondo anche Madrid ha chiuso in negativo con -0,7%.
Per comprendere i motivi dei segni meno, è utile guardare in quali nazioni è calata la domanda di beni meccanici italiani. Risposta? Un po’ ovunque, ma con particolare forza proprio all’interno dei confini europei. Nei primi sei mesi del 2024, l’export settoriale è infatti diminuito mediamente del 3,2% rispetto al primo semestre del 2023 ma, mentre le esportazioni dirette verso l’Ue sono scese del 5,5%, quelle indirizzate verso i mercati esterni alla zona euro sono diminuite solo dello 0,5%.
In quale Paese Ue è calata maggiormente la domanda di beni meccanici nostrani? In Germania, dove il nostro export si è contratto dell’11,1%. Il problema, come noto, è che la nostra economia è strettamente legata a quella tedesca. Per questo il crollo della domanda della Germania – unito a quello di Francia, Svizzera, Turchia, Giappone e Russia – non è stato compensato dai dati pur positivi dell’export meccanico italiano verso Usa, Regno Unito, India e Cina.
Il futuro non appare roseo
Anche le prospettive per il futuro non sono esaltanti. Vuoi per le tensioni geopolitiche in Medio Oriente, vuoi per i rapporti compromessi tra Ue e Russia o per il graduale disaccoppiamento delle economie occidentali da quella cinese, il 32% delle imprese associate intervistate da Federmeccanica (in aumento rispetto al precedente 21%) prevede una contrazione dei livelli di produzione anche per i prossimi mesi.
Che fare? Qui arriviamo alle proposte che potrebbero cambiare di molto le carte in tavola. Commentando questi dati, il neo presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha detto che «il Green Deal è impregnato di troppi errori che hanno messo e mettono a rischio l’industria». Secondo il rappresentante degli industriali, «la decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una debacle». Orsini ha citato l’esempio della siderurgia: «Come si fa a difendere ad esempio la filiera dell’acciaio se le regole del Green Deal europeo mettono in discussione la produzione del ferro e degli altiforni in tutto il continente?». Passando alle proposte, ha chiesto «tempi corretti e finanziamenti per garantire al nostro sistema la giusta competitività nei confronti con altre aree come, ad esempio l’India e la Cina, che non hanno di certo le stesse regole». Ha definito «il ritorno al nucleare qualcosa di strategico» per l’Italia. È poi la proposta più immediata, su cui anche il governo è d’accordo. Orsini ha infatti ringraziato pubblicamente Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, «per aver chiesto all’Europa di anticipare la data della clausola di revisione sul Green Deal ai primi mesi del 2025».
Il target 2035 va rivisto: ma come?
La questione è quella che sta mandando in subbuglio buona parte del settore automotive europeo. A marzo 2024 i ministri europei dell’energia hanno ratificato a larga maggioranza (Germania inclusa) il regolamento che di fatto vieta l’immatricolazione di auto con motori termici alimentati a benzina e diesel a partire dal 2035.
A votare contro è stata solo la Polonia, mentre il governo italiano si è astenuto insieme a quelli di Bulgaria e Romania. Ora però i contrari sembrano essere aumentati. A luglio 2024, dopo le elezioni europee che lo hanno visto uscire vincitore, il Partito popolare europeo ha detto di voler chiedere una modifica delle norme Ue.
Quando potrebbe avvenire questa discussione per cambiare le regole del Green Deal? In teoria nel 2027, data in cui è prevista la possibilità di rivedere la norma. E qui s’inserisce la proposta italiana: anticipare al 2025 il tagliando sulla legge. Un’idea che ha già trovato il supporto del Ppe, oltre che di Ecr e Patrioti per l’Europa.
Insomma, all’orizzonte non s’intravede la possibilità di cambiare le regole. Anzi: la strada sembra già tracciata. Il lettone Valdis Dombrovskis, da poco confermato vicepresidente della Commissione europea dalla numero uno Ursula Von der Leyen, ha sottolineato che il percorso europeo garantisce sufficiente «certezza per produttori e investitori», e «ha anche fornito abbastanza tempo per pianificare una transizione equa». La precisazione fatta lo scorso ottobre da Dombrovskis, che attualmente è anche commissario al Commercio, sembra dunque escludere ogni ipotesi di futura retromarcia dell’Ue. La quale, tuttavia, alle norme in favore dell’auto elettrica sta affiancando una battaglia commerciale sempre più aspra con la Cina.
Strategie a difesa dell’industria europea dell’automotive
La strategia scelta dalla Commissione per combattere la concorrenza di Pechino e difendere l’industria automobilistica europea (secondo l’associazione di categoria ACEA, il settore dà lavoro a circa 13 milioni di persone nell’Ue tra diretti e indiretti, pari al 7% dell’occupazione del blocco Ue) si basa al momento soprattutto sui dazi. A inizio ottobre 2024 i governi dei 27 paesi hanno votato sulla proposta di nuove tasse mirate a contrastare le importazioni delle auto elettriche cinesi accusate di ricevere troppi sussidi statali. Dieci i voti a favore, tra cui quelli di Italia e Francia, dodici gli astenuti, cinque i contrari guidati dalla Germania. Una situazione di stallo risolta dalla Commissione, che ha scelto di andare avanti comunque con la sua proposta: i dazi – entrata in vigore a novembre – dureranno per cinque anni, arriveranno fino al 35% (variano da marchio a marchio) e si aggiungeranno alle tariffe del 10% già in vigore.
Europa e Cina: una guerra commerciale aperta
La Cina ha già risposto. «La parte europea dovrebbe comprendere chiaramente che l’imposizione di dazi non risolve alcun problema» e porta soltanto alla «perdita per entrambe le parti», ha dichiarato, la portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. E ancora: la scelta di imporre dazi sulle auto elettriche, ha detto, «scuote la fiducia e la determinazione delle imprese cinesi a investire e collaborare con l’Europa» e «interrompe la stabilità delle catene di fornitura globali». Dunque, è guerra commerciale aperta. La prima ritorsione di Pechino è stata l’imposizione di dazi sulle importazioni di brandy dall’Europa. Una mossa che colpisce soprattutto la Francia di Emmanuel Macron, capofila della battaglia contro Pechino, visto che Parigi è tra i principali esportatori di brandy verso la Repubblica Popolare. Si vedrà se l’escalation proseguirà.
Per la competitività dei trasporti Ue serve pianificazione
Mentre i produttori d’auto europei chiedono intanto più incentivi rispetto a quelli attuali per i cittadini che acquistano auto elettriche, ci sono alcuni dati che aiutano a comprendere lo stato dell’arte. Li ha messi in fila Mario Draghi nel suo recente rapporto sulla competitività dell’Ue. L’ex presidente della Bce e premier italiano ha detto che «il settore automobilistico è un esempio chiave della mancanza di pianificazione dell’Unione e dell’applicazione di una politica climatica senza quella industriale». Draghi non ha criticato il bando del Green Deal a diesel e benzina, ha piuttosto stigmatizzato la mancanza di una politica economica comune all’interno dell’Ue. A differenza del Vecchio Continente, che «non ha dato seguito alle ambizioni di decarbonizzazione con una spinta sincronizzata per convertire la catena di fornitura», la Cina – ha ricordato Draghi – «si è concentrata sull’intera catena di fornitura dei veicoli elettrici dal 2012 e, di conseguenza, si è mossa più velocemente e su larga scala, e ora è una generazione avanti nella tecnologia dei veicoli elettrici in praticamente tutti i settori, producendo anche a costi inferiori». Risultato: «La quota di mercato delle case automobilistiche cinesi per i veicoli elettrici in Europa è salita dal 5% nel 2015 a quasi il 15% nel 2023, mentre la quota delle case automobilistiche europee nel mercato europeo dei veicoli elettrici è scesa dall’80% al 60%». Per l’ex numero uno della Bce, in conclusione, serve una «pianificazione a livello Ue per la competitività dei trasporti», partendo dall’installazione massiccia delle colonnine di ricarica.
C’è però un punto da ricordare per evitare errori di valutazione. Non tutti i paesi europei hanno registrato cali nella vendita di auto. E molto, dimostrano i numeri, dipende dalla scelta degli incentivi. Nei primi otto mesi del 2024 le immatricolazioni delle auto in Ue sono cresciute dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2023, mentre la sottocategoria delle elettriche è diminuita dell’8,3%. Sul calo, però, pesa in maniera molto rilevate il fattore Germania, dove proprio ad agosto del 2023 scadevano gli aiuti economici per le vetture elettriche aziendali (quelli per i privati sono finiti a dicembre).
La conclusione è che, se si esclude dai conti la Germania (-32%), nei primi otto mesi del 2024 le immatricolazioni delle auto elettriche in Ue sono cresciute (+ 33 mila vetture), non diminuite rispetto all’anno scorso (Tabella 2).
Che siano gli incentivi a fare la differenza è suggerito da altri due casi. Il Belgio, che ha eliminato i vantaggi fiscali garantiti alle auto aziendali a benzina e diesel, nei primi otto mesi di quest’anno ha visto aumentare del 41,3% le vendite di elettriche su base tendenziale.
In Italia, invece, nello stesso periodo le immatricolazioni di e-car sono calate del 12,3%. Motivo? Due, probabilmente. Gli incentivi per le elettriche quest’anno ammontavano a poco più di 200 milioni di euro; infatti si sono esauriti in soli 8 ore. Per quelli per auto diesel e benzina, con emissioni fino a 135 g/Km e dunque di molto superiori rispetto agli obiettivi Ue, il governo ha invece messo sul piatto 1 miliardo di euro.
Stefano Vergine
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