Ufficialmente è per le “politiche antisemite” perseguite dal governo irlandese che Israele ha chiuso i battenti della sua ambasciata a Dublino qualche giorno fa. L’Irlanda, secondo il ministro degli Esteri Gideon Saar, sta «delegittimando e demonizzando» lo stato ebraico. Comunque, la sede diplomatica di Tel Aviv era già vacante da mesi del suo capo.
L’ambasciatrice Dana Erlich – contro cui i deputati irlandesi hanno anche presentato mozione per il ritiro dello status diplomatico – era stata già richiamata in patria a maggio scorso, quando la piccola isola ha riconosciuto l’esistenza dello Stato palestinese. Nello stesso mese l’Irlanda si è schierata al fianco del Sud Africa e costituita parte civile nella causa che persegue la “condotta genocida” di Israele alla Corte internazionale di giustizia.
Il ministro degli Esteri irlandese Micheal Martin, probabile prossimo capo di Stato del paese, ha promesso che alzerà la voce all’Aja: chiederà alla Corte di ampliare l’interpretazione «di ciò che costituisce genocidio da parte di uno stato», perché «un’interpretazione restrittiva porta a una cultura di impunità».
Legami infrangibili
Quella tra irlandesi e palestinesi la chiamano sull’isola del trifoglio «solidarietà infrangibile», unbreakble. È iniziata ben prima dell’ultimo maggio 2024, quando insieme al premier spagnolo Pedro Sánchez, l’allora Taoiseach (così si chiama in gaelico il primo ministro irlandese) ha riconosciuto ufficialmente lo stato palestinese: «Vediamo la nostra storia nei loro occhi. Una storia di espropriazione e sfollamento», ha detto Leo Varadkar.
Il suo successore, Simon Harris, in queste settimane è andato oltre: quando gli israeliani hanno scelto di chiudere la loro sede diplomatica in Irlanda, ha deciso di non ricambiare lo sgarbo, convinto che i conflitti si risolvano col dialogo e ha lasciato aperta la sua ambasciata a Ramat Gan. Harris ha respinto al mittente le accuse di antisemitismo ribadendo che l’Irlanda non è anti-Israele: «È pro-pace, pro-diritti umani, pro-legge internazionale».
Intanto, ha avviato la procedura d’insediamento della prima diplomatica palestinese della storia a Dublino. A rappresentare la Palestina in Irlanda ora c’è una donna: l’ambasciatrice Jilan Wahba Abdalmajid, la cui prima mossa, una volta in carica, è stata chiedere la sospensione di Israele all’Onu per la decisione di bloccare l’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per soccorso ai rifugiati palestinesi). All’Irish Times ha detto quello che sostengono milioni di cittadini dell’isola: «Condividiamo la stessa storia di colonizzazione e oppressione. Gli irlandesi sanno esattamente come si sentono i palestinesi per l’occupazione».
I più filopalestinesi d’Europa
In Irlanda, e soprattutto in Irlanda del Nord, te lo dice la gente o te lo dicono i muri, con le loro scritte sopra, che i due popoli hanno provato un dolore gemello e che la grande lotta della piccola isola per la Palestina è cominciata ben prima di questa ultima guerra in Medio Oriente. L’Irlanda non è diventata in questi mesi il paese più filopastinese d’Europa: lo è da sempre, dagli anni della guerra civile, dalle bombe e dai morti dei massacri a Belfast, dalla strage a Bogside avvenuta nel gennaio del 1972 a Derry, la città del Bloody Sunday.
I cicli di carestie imposti dai britannici agli irlandesi nel passato sono ricordi ancora vivi che lo diventano ancora di più per la nuova fame che vedono patire agli sfollati a Gaza. La discriminazione, le carcerazioni forzate e senza prove, la fame, le fughe patite per l’imposizione di politiche crudeli da uno stato più forte e potente, le vedono nello specchio rovesciato della storia, anche se si ripetono in una terra lontanissima dalle loro coste. Gli irlandesi non vedono le stragi nella Striscia solo alla tv: le guardano attraverso il prisma della loro memoria, quella della guerra combattuta per la loro indipendenza contro la Corona di Londra.
Quello che ha sorpreso di più Zoe Lawlor, direttrice dell’organizzazione nazionale Campagna solidarietà Irlanda – Palestina (Ipsc) è stata la responsabilità generazionale dimostrata davanti allo sterminio, la dimensione ubiqua e massiva della manifestazioni, la partecipazione costante alle proteste che chiedevano stop the genocide e l’imposizione di sanzioni ad Israele per la salvezza del popolo palestinese. In tutto il paese, dai centri più abitati a sud fino ai villaggi sperduti tra i picchi delle montagne a nord, gli irlandesi non hanno mai smesso di scendere in strada sventolando il tricolore nazionale accanto alla bandiera coi colori gazawi.
Non si sono stancati come altre piazze Ue diventate più vuote, più esauste e spente davanti alla sordità delle istituzioni che contestavano. In Irlanda anche il Natale sarà per Gaza: le veglie quotidiane per la Striscia da Newbridge a Westport sono programmate no stop fino a inizio gennaio 2025.
In questi ultimi anni gli alfieri irlandesi più spregiudicati della causa palestinese sono stati certamente due. Le accuse di ipocrisia e genocidio sono state scagliate non solo verso Tel Aviv, ma anche contro i vertici dell’Unione europea che consentono «la punizione collettiva» del popolo palestinese, dall’ormai ex europarlamentare Mick Wallace: «Stanno letteralmente dando carta bianca ad Israele per commettere atrocità contro la Palestina»; «Israele non potrebbe commettere un genocidio senza sostegno degli Stati Uniti e dell’Europa». Non meno del vecchio compagno di scranno nello stesso gruppo Sinistra si opponeva alle politiche filoisraeliane e alla costante crescita del militarismo occidentale l’eurodeputata Clare Daly. Sia dentro che fuori dai palazzi, chiamava la presidente della Commissione Ursula von der Leyen “Lady genocidio”.
Convivenze difficili
Nemmeno l’Irlanda, isola ancora spezzata in due, ha risolto tutti suoi problemi di convivenza, ma sono in molti oggi a credere che la terra del trifoglio che si è conquistata la libertà dopo secoli di lotta possa fare da modello, col suo passato, al futuro della Palestina. Il Goverment of Irland act, siglato nel dicembre del 1920, è servito anche ad altre latitudini, per stati in conflitto che hanno saputo trovare accordi di pace traendo ispirazione dal modello irlandese.
Oggi, sul treno che ti porta da Dublino a Belfast, dall’Irlanda all’Irlanda del Nord, non puoi accorgerti del momento in cui varchi il confine che separa uno stato dall’altro. Divisioni e barriere fisiche alla frontiera non ce ne sono più. Rimangono altri muri, quelli delle Peace Lines (letteralmente “linee della pace”), che servivano a dividere le due comunità, che nessuno si è curato o ha voluto, per un motivo o per l’altro, buttare giù.
Nei quartieri di case dai mattoni rossi dei britannici lealisti c’è la stella di Davide, sventolano le bandiere israeliane. Sui muri dei cattolici socialisti c’è dipinta ripetutamente, insieme ai volti dei martiri irlandesi sotto cui i cittadini non dimenticano mai di mettere fiori rossi e freschi, la bandiera di quei fratelli lontani, di sangue, fame e guerra, che stanno oggi sotto le bombe a Gaza.
© Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link