In difesa del fact checking

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È bellissima l’idea di fare fact-checking, il problema è che bisogna investire qualcuno del compito di impancarsi a ministro della verità, orwellianamente parlando. Io non riconosco a nessuno l’autorità di fare il ministro della Verità

Marco Travaglio

Nella serata di martedì 7 gennaio è andata in onda su La7 la consueta puntata di Otto e Mezzo, il talk show condotto da Lilli Gruber. In un segmento della trasmissione, viene citata la recente decisione di Mark Zuckerberg, proprietario di Meta, di terminare il proprio programma di fact-checking sulle sue piattaforme social. A commentare la notizia c’era, tra gli ospiti, il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che ha accolto con favore la scelta di Zuckerberg:

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“È bellissima l’idea di fare fact-checking, il problema è che bisogna investire qualcuno del compito di impancarsi a ministro della verità, orwellianamente parlando. Io non riconosco a nessuno l’autorità di fare il ministro della Verità.

Preferisco che ciascuno scriva la sua e che poi, con la propria autorevolezza ciascuno guadagni i punti che si merita.

È come chiedere agli edicolanti di decidere cosa è vero e cosa è falso. I social sono un luogo dove uno mette quello che vuole; esattamente come nelle edicole ognuno mette il giornale che vuole. Poi i cittadini comprano”.

Questa dichiarazione di Travaglio riflette una scarsa comprensione di cosa sia il fact-checking e di come questo funzioni, per numerose ragioni.

L’idea che il fact-checking sia un atto tramite cui ci si arroga il potere di decidere cosa è vero e cosa no è una posizione espressa negli anni anche da altri commentatori. Perciò può essere utile prendere spunto dall’intervento di Travaglio per spiegare cosa non va in questa narrazione. Discuterla ci aiuta anche a capire perché la decisione di Zuckerberg è sbagliata e si regge su presupposti infondati.

In primo luogo, il paragone tra fact-checking e ministero della Verità è erroneo e fuorviante.

Il ministero della verità, in 1984 di George Orwell, è infatti un organo politico, e non giornalistico, al servizio del Partito – l’entità totalitaria che governa sullo stato immaginario di Oceania (il luogo della narrazione). Si tratta di un istituto propagandistico che ha il compito di manipolare e riscrivere la storia, falsificando i fatti per adattarli alla narrazione ufficiale del Partito.

Il ministero della Verità è quindi un’entità che opera in maniera diametralmente opposta rispetto a un giornale, sia nelle finalità che soprattutto nei mezzi; e il fact-checking, essendo una pratica giornalistica volta alla verifica dei fatti, è quanto di più lontano ci sia dal ministero della Verità. Il fact-checking è infatti un metodo di trasparenza: il giornalista verifica che i fatti e le fonti citate in una notizia o da terzi siano corretti, e lo fa mettendo a disposizione le sue informazioni, o quello che è riuscito a reperire.

Se un fact-checker scrive che qualcosa è falso, questo giudizio viene supportato da prove ed evidenze che sono a completa disposizione del lettore, il quale può verificarle di persona e decidere se quello del giornalista è stato un buon lavoro.

Suggerire che chi fa fact-checking si intesta lo stesso ruolo del ministero della Verità è quindi profondamente scorretto: il ministero della Verità è la negazione della trasparenza, perché chi ascolta o legge i suoi proclami non ha modo di verificare alcunché, e non è libero di farsi un’opinione informata. Il giornalista che fa fact-checking, invece, lascia sempre al lettore la libertà di controllare la correttezza del proprio lavoro.

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Ma è altrettanto fallace anche il secondo paragone nel discorso di Marco Travaglio – quello tra piattaforme ed edicolanti. Anche qui, per più di un motivo. Innanzitutto perché i fact-checker in questione – a differenza di quanto lascia intendere Travaglio – non lavorano direttamente per Meta, ma per associazioni indipendenti a cui Meta ‘subappalta’ il compito di segnalare e verificare i contenuti. Quando un fact-checker segnala a Meta che un contenuto è problematico, ad esempio perché falso o fuorviante, il social si attiva per penalizzarne la diffusione ed etichettarlo tramite un banner visibile agli utenti.

La metafora dell’edicolante è quindi sbagliata, perché non è Meta (l’edicolante) a verificare i propri contenuti, ma un soggetto terzo che agisce in autonomia. Meta si limita a restringere la diffusione di un post solo dopo che i fact-checker ne hanno segnalato la natura controversa.

“E se il fact-checker che fa la segnalazione a Meta è politicamente schierato?”. Questa domanda nasce da un presupposto sbagliato. Nessun giornalista, così come nessuna testata al mondo può dirsi completamente unbiased – che sia un notiziario parrocchiale o il New York Times. Quello che conta è la qualità delle argomentazioni. Il fact-checker deve fornire evidenze convincenti per le sue valutazioni; e che queste lo siano oppure no prescinde dal suo orientamento politico. Un fact-checker che vota Dem e scrive un articolo di debunking su una dichiarazione mendace di Trump deve fornire delle spiegazioni, basate su fatti, che dimostrino che quella di Trump era una bugia. I fatti non sono né di destra né di sinistra: sono solo i fatti.

Oltretutto, i fact-checker di professione aderiscono a codici deontologici abbastanza rigidi. Le associazioni giornalistiche che fanno parte del programma di fact-checking di Meta sottoscrivono infatti un codice etico molto rigoroso, quello dell’International Fact-Checking Network (IFCN).

Con buona pace di quello che afferma Zuckerberg, che ora sente l’esigenza di ingraziarsi il nuovo presidente americano, i fact-checker che lavorano su sua commissione non sostengono né prendono posizioni politiche sulle questioni che verificano, e sono trasparenti riguardo alle loro fonti di finanziamento e a potenziali conflitti di interesse.

Se si consulta la pagina di presentazione di una qualsiasi testata di fact-checking, ad esempio, si noterà che un requisito essenziale per il giornalista che vi lavora è quello di non essere iscritto a partiti o movimenti politici, e di non fare militanza politica attiva in nessun’altra maniera. Tutto ciò è garanzia automatica di imparzialità assoluta? No, ma sono barriere all’ingresso piuttosto forti e, come abbiamo già detto, sono le argomentazioni addotte dal fact-checker il vero banco di prova. Non le sue preferenze politiche personali, che pure sono ineliminabili.

Tutto questo discorso aiuta a capire perché il fact-checking non è fatto di potere. Nell’analogia dell’edicolante di Travaglio non si capisce infatti in che senso si tratterebbe di “decidere” (sic) cosa è vero e cosa è falso. Per come ne parla il direttore del Fatto, sembra che le valutazioni dei fact-checker siano degli atti volitivi di un reggente annoiato, che decide in base all’umore e al principio di autorità. Ma non c’è nulla da “decidere”.

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Il fact-checking non è un’assemblea di probi viri o una votazione per alzata di mano. Si tratta di risalire faticosamente ai fatti controllando dati, dichiarazioni, fonti, notizie, prove che possano fornire indizi per una valutazione. E spesso questa valutazione – se il giornalista è attento – può modificarsi nel tempo, perché emergono nuovi elementi che prima non c’erano o non erano disponibili. E se il giudizio cambia radicalmente spesso si chiede anche scusa al lettore, e si torna sui propri passi.

Nessuno ha mai sostenuto che il fact-checking sia infallibile o che i giornalisti conoscano la verità delle cose. Ma il buon senso suggerisce che l’informazione verificata è meglio di quella non verificata, di quella dispersa sui social dove ognuno asserisce quel che vuole senza necessità di controprove.

Nel mondo ideale di Marco Travaglio, invece, il lettore deve affidarsi al prestigio e all’autorità di chi scrive. Per stare alla sua metafora, se hai “punti” – cioè se sei percepito come autorevole – ti basta scrivere la tua opinione per essere creduto.

Poco importa se è un’opinione informata, tanto poi i cittadini se la “comprano” lo stesso perché a scrivere (o a parlare) è una persona con tanti punti.

In pratica vale il principio di autorità: se lo ha detto lui o lei, allora è giusto. Inutile mettersi lì a leggere i dati e a verificare le notizie; che noia e che fatica. Ognuno dice la sua, poi in base alla reputazione di chi scrive – se è simpatico o antipatico, bello o brutto, famoso o sconosciuto – decidiamo se è il caso di fidarsi. Cosa potrà mai andare storto?

In realtà, il problema di tutta questa discussione è uno e uno soltanto: che molta gente, come Travaglio, non sembra credere più all’esistenza dei fatti; o per meglio dire, non crede più alla separazione tra fatti e opinioni. Per costoro esisterebbero solo le opinioni, che uno poi si “compra” in base all’autorevolezza percepita della fonte. Ma questa maniera un po’ postmoderna di ragionare si ritorce sempre contro chi la sostiene, tant’è che Travaglio subito dopo si contraddice:

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“Se voi andate a cercare in questi quindici mesi qualche notizia vera su Gaza non la trovate sui social di Meta. Non so chi ha provato a scrivere “Gaza” con qualche parola adeguata sui crimini che venivano commessi, venivano regolarmente espunte. Mentre invece da X sono passate le notizie scomode, perché su X non c’è filtro”.

Tralasciando il fatto che la censura di notizie su Gaza non c’entra nulla col programma di fact-checking, qui uno potrebbe fare a Travaglio le seguenti domande: e chi ti ha investito del ruolo di ministro della Verità? Come fai a dire che quello che gira su X è vero mentre quello che gira su Meta è falso? La verità o esiste sempre o non esiste mai: non si può dare all’aggettivo “vero” una sua legittimità solo quando ci fa comodo. D’altronde, anche il Fatto Quotidiano in passato ha dedicato (meritoriamente) molte pagine al fact-checking; segno che la verifica dei fatti è un’attività ritenuta essenziale anche dai suoi contestatori.

Uno dei tanti fact checking pubblicati dal Fatto Quotidiano

La cosa stupisce ancora di più se si pensa che Travaglio qualche anno fa, all’epoca dell’antiberlusconismo rampante che lo ha reso autorevole (cioè gli ha dato i famosi punti), scrisse un bellissimo libro chiamato, ohibò, La scomparsa dei fatti (Il Saggiatore).

Un punto cruciale di quel libro era la critica alla confusione deliberata tra fatti, che dovrebbero essere oggettivi e verificabili, e opinioni, che invece rappresentano interpretazioni soggettive. Nel suo stile polemico e amaramente ironico, Travaglio criticava duramente i talk show e i (tele)giornali italiani perché a sua detta amplificavano opinioni personali a scapito della verità fattuale; un po’ come succede sui social alla X, verrebbe da dire.

Alle soglie del 2025, apprendiamo che l’autore di quel libro ha cambiato idea: esistono solo le opinioni, e chi vuole se le compra. Il resto è roba da ministero della Verità.

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